"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

The Challenge (Yuri Ancarani)

Monday, 21 November 2016 10:05

Falcata finale

Vanna Carlucci

Quando parliamo di immagini, quando parliamo di cinema, dimentichiamo spesso a noi stessi che si tratta di qualcosa che imprigiona gli occhi, di una specie di folgorazione, di volo mentale che ci scaglia su territori indefiniti e stranieri ma che ci tiene stretti nella morsa della visione; allo stesso tempo l’occhio, questa sfera cristallina che risucchia e capovolge ciò che della cosa vista è diventata pura proiezione, imprigiona l’immagine sulla retina, la manipola secondo impulsi elettrici, l’annienta poi al successivo battere di palpebra e cambio di visione. Prede e predatori, la sfida sta in questa eterna lotta che il cinema ci pone in vista, magari, di una utopica liberazione degli occhi. Così i primi minuti del film The Challenge di Yuri Ancarani mostra la resistenza e la prigionia: centinaia di falchi volano all’interno di un edificio/gabbia e sembra quasi un girare a vuoto (quello dell’animale, quello del regista) come in uno stato di perenne cattività che diventa anche sguardo dello spettatore che prova a reggere l’attesa di fronte a un desiderio oscuro, occluso, ancora bendato prima di essere slacciato definitivamente in volo e poi dentro la propria preda. In questi primi 4 minuti il senso della visione e del veduto è un pensiero che si rimargina continuamente, è l‘incipit di un colloquio inesatto, di una geografia di immagini ancora da raggiungere. Il falco, animale predatorio, qui viene addestrato secondo una pratica millenaria, in vista di una gara di falconeria nel deserto del Qatar. Anche il deserto occupa la vista, appunto, ci imprigiona nella sua grandezza, nel suo essere niente o meno di niente e proprio per questo rappresenta una «perenne eccitazione» – dice Bachmann – «pronto a divorare l’osservatore [perché] è più forte di tutte le immagini che siano mai entrate nell’occhio». Ma qui ciò che pietrifica è il colore netto che invade la superficie dell’immagine, l’oro colante sugli oggetti e sulla sabbia a creare strati e apparenze, ulteriore gabbia alla naturale brutalità dell’immagine: è la cromia esatta di un luogo che, in The Challenge, mostra la sua immagine capovolta. Il deserto non è più deserto, povertà fisica, pura assenza ed essenza d’altro ma diventa un luogo di messa in mostra: non più un vuoto che libera i corpi, che li desertifica rendendoli polvere e miraggio, non più una luce che acceca e inghiotte e che espone la percezione al suo limite, qui al contrario tutto è sempre esteticamente esatto, limato, addestrato e preparato per avere già tutto nelle nostre mani. Dentro questa proliferazione materiale di oggetti, denaro, jeep e lamborghini (è l’aristocrazia petrolifera nel Qatar a fare da padrone), il deserto diventa territorio senza zampe ma fitto di rombi di motori nella sabbia a sviluppare tracciati di un’umanità esagerata, quasi surreale, aliena forse, e proprio per questo in grado di rompere le coordinate del puro spazio dell’immaginario. Qui gli uomini non guardano il deserto, non assistono al cielo rivoltato negli occhi, alla sabbia manipolatrice di percezioni, chimere e fantasmi ma ciò che compie Ancarani è dirottare gli occhi nella visione sospesa al movimento del falco che mentre insegue la sua preda dentro un volo epilettico, liberatorio e allo stesso tempo estatico, tutto in soggettiva grazie a una microcamera legata alla testa dell’animale, viene a sua volta inseguito, ingabbiato al volo e riproiettato all’interno di schermi che infrangono e rifrangono le immagini. Campo e controcampo, quello di Ancarani, è la sfida dello sguardo che si genera e rigenera installandosi sulla sabbia come un monolite kubrickiano, schermo nero, terzo occhio che assiste a ciò che resta dell’umano. Un occhio che - parafrasando Merleau-Ponty - è nel mondo e allo stesso tempo è il mondo nell’occhio, è cioè il medium attraverso cui l’immagine accade nella sua falcata finale, un volo in picchiata.

 

 

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