"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Quasi un tour. Negli attraversamenti senza meta, nelle soggettive della strada dove si cerca di sorgere altro oltre l’orizzonte. Sullo sfondo di un paesaggio che muta ma non sembra mai appartenere a Pierre e Paul. Una maladie d’amour giocata sulla distanza, sulla separazione. Dove la macchina da presa sembra scavare dentro/oltre i primi piani, sprigionando un tormento epidermico che porta Jours de France nelle zone del cinema di Paul Vecchiali a cui Jérôme Reybaud - qui al uo primo lungometraggio - ha dedicato il documentario Qui êtes-vous Paul Vecchiali?. I giorni perdono i loro limiti temporali. Sembrano frammenti di un’eternità. Nel cielo grigio, nelle luci della notte. Dove ogni gesto si porta tutto il sovraccarico di tutta una vita. Un urlo. Come quello nella campagna deserta. Un voce che si libera in un film invece segnato dai silenzi ma dall’incessante flusso dei pensieri. Dove la colonna sonora sono i rumori del motore dell’auto, della pioggia, le voci dell’autoradio.
Jours de France sembra quasi un film fantastico. Come se i corpi si sdoppiassero. L’iniziale addio potrebbe non esserci mai stato fisicamente. Può essere tutto nella testa di Pierre. Quasi una proiezione di se stesso a bordo della sua Alfa Romeo. Tra montagna e campagna appunto, con i tratti di una fisicità e sessualità che ha lampi di rabbia e di passione come in Claire Denis ma che poi ritorna nelle zone di un cinema che si spinge a filmare il pensiero e il desiderio. Il corpo, lo spazio. Pierre si autoalimenta con il vuoto attorno, nello spazio all’interno della sua macchina. Gli incontri diventano sempre tappe provvisorie. Sia gli incontri sessuali, che possono nascere dalla casualità di un numero di telefono scritto sulla porta del bagno di una stazione di servizio, sia quelli con le donne a cui da un passaggio in macchina. Oppure nel momentaneo slancio verso un proprio passato, nell’incontro con la libraia interpretata da Natalie Richard. Alla stessa maniera Paul. Che si compra due posti per vedere Così fan tutte di Mozart anche se non ha nessuno vicino a sé perché anche lui è un corpo che, cinematograficamente, vive da solo e acquista spessore solo se sullo sfondo dello spazio.
È continuamente segmentato Jours de France. Nelle carrellate che seguono continui movimenti orizzontali come le camminate, nelle autostrade che sembrano creare come delle rette parallele. Quelle di un viaggio parallelo, di un inseguimento/pedinamento che lambisce le zone del thriller. Che spezzano e poi ricompongono il paesaggio e che poi aprono nuovi squarci come l’entrata in chiesa o la corsa verso una borsa rubata, nella masturbazione vicino un muro. Con un attrito persistente tra la carne e la materia. Come se ci fosse uno scontro ogni volta che Pierre gli va incontro. Come a creare nuovi spazi, luoghi immaginari fisici/mentali. Dove musica (Mozart, Ravel, Rameau) e mito (la Medea di Corneille) diventano momentanee immersioni, controcampi e zone di fuga in un cinema di continui confini, anche geografici (la Francia/l’Italia), quasi pulsioni verso un altro tempo. E il contatto con la realtà e il ritorno al presente avviene frequentemente attraverso le app, mappe virtuali che (man)tengono quella sottile tensione di rivelazioni e sparizioni, di un cinema che riesce ad essere contemporaneamente concreto e astratto, che fa sentire addosso l’umidità della nebbia, il freddo della neve. Tutte temperature apparentemente esteriori che sono in realtà un altro dichiarato richiamo di contrasto. Proprio per dare forma a quel fantasy desiderante dove Reybaud ama perdersi. Come se anche il suo sguardo volesse perdere d’orientamento in un cinema che ama (re)inventarsi.