"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Hideo Kojima

Monday, 21 November 2016 09:21

Solo un gioco

Alberto Momo

La serata era così calda che mai avrei creduto di incontrare il cinema. E tanto meno vederlo liberarsi da delle lenti che imprigionano dei cristalli liquidi. Ma si sa, il cinema lo trovi dove meno te lo aspetti. Almeno così mi succede negli ultimi tempi. È l'ospite inatteso, delle volte mascherato, altre nascosto, che ti sembra di riconoscere in un volto illuminato su un tram che ti scorre davanti o nelle luci di una città che di notte si dissolve sulla superficie di un fiume. Così vado a cercarlo inforcando la bicicletta, invece di entrare in una sala (soprattutto ora che le arene estive sono più rare delle lucciole).

 

Attraversata la città, mi trovo sprofondato in un divano incassato nella piega di un sottotetto. Nel Paradiso di Feif, come lo chiamano i miei figli. Pochi metri quadri cucinati dal sole qualche piano sopra l’abitazione di un caro amico che qui organizza la sua dolce reclusione. Ogni oggetto è una traccia. Di un mondo di affetti, di un paesaggio che accoglie quel che sopravvive della sua infanzia. Pile di videogiochi, qualche volta raccolti in scrigni pop e fantasmagorici. Modellini in scala di personaggi tra i quali non ne riconosco che qualcuno di Guerre stellari. Poster di eroi digitali nobilitati da scritte autografe in giapponese. Un grande schermo al muro con tentacoli di cavi che animano scatole tecnologiche dai display illuminati. E altri oggetti dei quali non arrivo a immaginare una funzione.

 

Dopo deliziosi gomitoli di lana, e i miei goffi tentativi di evitare il suicidio di un gattino con colpi disordinati su un joypad, decido di abbandonare quell’oggetto vibrante, che continua ad agitarsi in modo inquietante sul cuscino di fianco, e di diventare solo uno spettatore, avvolto nelle volute del caldo, del fumo, del divano e di quelle convulsioni elettroniche che si agitano sullo schermo. Sono consapevole della mia codardia, o anche solo della pigrizia che mi porta a tradire le regole del gioco. Non sono un videogiocatore, non posso permettermi nuove dipendenze; e quelle che seguono sono solo piccole note di un occhio in astinenza che tradisce l’esperienza completa del gioco, e quindi in fin dei conti la natura di quest’opera ibrida, per ricavarne una dose di cinema.

 

Un’assolvenza dal nero. Poi una luce gialla, e due tendine che come otturatori oscurano ogni tanto l’immagine: un battito di palpebre, siamo dentro un occhio. Una soggettiva digitale che mima il dato biologico. E il mondo ci appare. Prima il braccio poi il corpo di una meravigliosa ragazza elettronica prende il campo. Si gira e guarda in macchina, in primo e primissimo piano si prende cura di noi, chiunque noi siamo. Il suo volto conserva tratti dell’umano, codificato da decine di macchine fotografiche che hanno avvolto il corpo di una giovane attrice e che hanno digitalizzato i suoi gesti catturando i suoi movimenti (ma tutto questo lo scoprirò solo più tardi).

 

Ci guarda e anche il nostro occhio si cristallizza. Polvere e granelli di sabbia incrostano la superficie dello schermo che si dichiara così l’occhio di una macchina da presa. Senza soluzione di continuità. Non ci sono stacchi. Solo precisi e continui scivolamenti fuori e dentro il nostro corpo. Siamo in una tempesta di sabbia, in una situazione di pericolo. I movimenti della ragazza si fanno più concitati, comunica con qualcuno, chiede aiuto con una ricetrasmittente, una musica sinfonica plasma l’erotismo e la malinconia della scena, di cui anche questa volta scoprirò solo più tardi il significato.

 

È una scena di raccordo dell’ultimo gioco di Hideo Kojima, Metal Gear Solid 5. Ora le chiamano cutscenes e la definizione che ne dà Wikipedia è troppo filosofica per non essere trascritta. È un tempo nel videogame dove il gioco si interrompe e il giocatore vede qualcosa accadere.

 

Ma in questo caso non è una sospensione. Perché il piano continua nel gioco come in un unico lungo pianosequenza, senza fratture di ordine estetico o di definizione grafica. Quello che sorprende sono piuttosto i ritmi, i tempi appunto di questi accadimenti, le linee dei movimenti di macchina e una drammaturgia che prende forma direttamente dal piano. O più semplicemente la libertà della visione che qui si confronta con un mondo aperto, una scena virtualmente infinita dove queste scene sono spesso nascoste, occultate come in una ghost track. Piani che potrebbero essere stati rubati a film di autori radicali che qui diventano i tasselli di una narrazione che può appassionare anche dei ragazzini.

 

 

Quando sudato come il mio personaggio mi sollevo a fatica dal divano, quel che resta è una nostalgia di cinema, e la nostalgia di un corpo che per un attimo è stato mio. Nulla come il titolo di questo gioco può descrivere questa esperienza di mancanza: Il dolore fantasma. Tecnica? Arte? Cinema? In fondo, è solo un gioco.

 

 

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