Emergere dal nero
Marco Romagna
I Had Nowhere To Go è il buio in sala. Il buio completo, assoluto, un buio che si può vivere solo al cinema e che non esiste in formati più leggeri del DCP, un buio che nemmeno i sottotitoli possono scalfire con la loro lama di luce, un buio nel quale ogni singolo respiro catturato dal sonoro è una nuova immersione nel mistero del cinema e nel cuore di un uomo. Che poi, nel caso di Jonas Mekas, che con la sua voce teneramente insicura e con il suo inglese orgogliosamente incerto da questo buio si racconta, cinema e uomo sono sempre stati la stessa cosa, con la Bolex vissuta come una sorta di prolungamento della mano e dell’occhio, con la pellicola nella cui fisicità si è sempre rispecchiata la fisicità di passione e desiderio, con le doppie esposizioni che sempre hanno indicato con toccante naturalezza i passaggi di stati d’animo, delle stagioni, dei sorrisi di una vita. Ha sempre filmato intorno a sé, Jonas Mekas, ha sempre raccontato la sua vita con poche parole e con molte immagini: ellittiche, avanguardiste, a volte ripetute e a volte necessariamente frammentarie, liminali, personali, istintive. Immagini con le quali sarebbe stato inutile confrontarsi anche per Douglas Gordon, già capace in passato di narrare un secolo di sudore e passione attraverso le evoluzioni (non solo) calcistiche di Zinedine Zidane filmato una sera al Bernabeu.
Questa volta, però, non c’era la necessità di dare conto dell’estrema frammentazione e moltiplicazione dei punti di vista, ma all’opposto di ricomporre un bombardamento di oltre mezzo secolo di immagini già significato, e confrontarsi con chi in questo mezzo secolo – dall’arrivo a New York senza nemmeno sapere la lingua alle collaborazioni con Andy Warhol, dalla teoria del cineclub alla distribuzione di Cinema 16, dall’invenzione del videodiario al New American Cinema - queste immagini le ha concepite, girate, montate e distribuite. Per potersi concentrare sul significante Jonas Mekas - o forse, per meglio dire, sull’eterna impossibilità del cinema di classificarsi, troppo liquido e mutevole nei suoi sensi e nelle sue aspirazioni - era necessario elidere quasi totalmente il significato, riportare le immagini a quello stato di luce primigenio che è il nero, relegandole a rari lampi di astrazioni oniriche e colore, mentre Mekas viene ritratto come specchio e corollario vivente delle sue stesse parole. Serviva piombare in quel nero assoluto, in quella sottrazione estrema, in quel buio immersivo senza il quale I Had Nowhere To Go non potrebbe esistere. Serviva per muoversi a ritroso, non solo fino alle radici del cinema ma a quelle intime e storiche dell’umano, in un percorso in un certo senso inverso rispetto a quello di Mekas, che invece è sempre pronto a mettere al centro la parola, il racconto in prima persona, la sincerità di chi ancora, certo solo di non avere assolute certezze, si interroga su se stesso, sul suo passato in fuga e sul suo eterno presente da apolide, sulla guerra, su una carriera basata sulla cinefilia militante e sul più puro antropocentrismo.
Vuole la leggenda che I Had Nowhere To Go sia nato da un incontro casuale fra i due registi, con il dono a Gordon da parte di Mekas del suo libro, la raccolta dei diari tenuti fra il 1944 e il '54 e dati alle stampe nel ‘91. Erano gli anni della guerra, dell’arrivo dell’Armata Rossa in Lituania a distruggere quel piccolo paradiso isolato dal dolore che atterriva il mondo intero nel quale Mekas era cresciuto, erano gli anni della prigionia, dell’esilio, della fuga. Erano gli anni dei campi rifugiati, del lungo viaggio per mare, dell’arrivo negli Stati Uniti e dell’apprendistato di quella lingua mai diventata fluente e mai accettata fino in fondo perché mai sentita propria, con quel costante senso di inadeguatezza, con quella eterna assenza di un luogo nel quale riconoscersi. Di questo parla I Had Nowhere To Go, il libro/diario di Mekas che, sempre secondo leggenda, Gordon avrebbe divorato lo stesso giorno in cui gli fu donato nel corso di un lungo viaggio in treno; di questo parla I Had Nowhere To Go, questo Portrait of a Displaced Person che Douglas Gordon ha voluto dedicare al maestro lituano e alla sua storia (il film è stato presentato al Festival di Locarno edizione 2016 nel concorso Cineasti del Presente). Jonas Mekas legge stralci del suo libro con il suo inglese claudicante e con la sua voce calda ma al contempo flebile, sussurrata, quasi come se avesse paura di disturbare. Dal buio emerge un uomo, emerge una poetica, emerge l’autodisseminazione del cinema, ponte fra il passato e il presente, fonte inesauribile di domande prive di risposte univoche, senso e sensibilità, sperimentazione e immaginazione. Mentre lo straordinario lavoro sul sonoro assomma lo stridore fluido della pioggia a quello atroce dei bombardamenti e a quello secco della carta delle pagine sfogliate, la voce di Jonas Mekas racconta dal profondo del nero la sua giovinezza e il suo primo rapporto con un obiettivo, con le foto agli stivali dei soldati sovietici poco prima che la macchina fotografica gli venisse rabbiosamente strappata dalle mani e distrutta, racconta di come si è avvicinato alla ripresa quasi come un gioco fra le regolazioni e le mille possibilità di montaggio in macchina offerte dalla Bolex, racconta della nascita di Walden quando si trovò a rendersi conto che il suo girato di anni era in sostanza già un film, racconta della sua necessità di filmare i momenti di felicità, perché nel mondo di dolore ce n’è già fin troppo. Ma, soprattutto, pone ancora una volta l’accento su come la guerra abbia radicalmente modificato la sua vita e la sua condizione umana, ricordando in un caldo abbraccio di orgoglio e nostalgia i più sani momenti bucolici in famiglia, le inossidabili tradizioni lituane, quei profumi, quei suoni, quelle canzoni forzatamente abbandonate ma mai dimenticate.
Dal nero di Douglas Gordon, assenza che sta allo spettatore colmare con la stessa battaglia visionaria che si deve a un libro, emergono lampi da Lost lost lost, da Reminiscences Of a Journey to Lithuania, dai Diaries, Notes and Sketches che compongono Walden. E, a questo punto, giunto finalmente al cuore del maestro, Gordon può riaprire all’immagine, può riportare sullo schermo altri significati alla ricerca di un significante, che siano patate da pelare e schiacciare o scimmioni comodamente sdraiati su un’amaca: quello che conta è il ritorno a Jonas Mekas, non solo alle sue parole ma anche al suo fisico, al suo volto, alla sua poesia. Nella sua lingua madre, un lituano pronto a riaffiorare alla mente e sullo schermo nelle vecchie melodie, Mekas ritorna all’infanzia bruscamente interrotta dalle bombe, al senso di appartenenza, alla propria casa e alla propria cultura, resistenti nella memoria a dispetto d’ogni trauma.
Il corpo, la fisarmonica, e poi il volto: il cinema, come un eterno Amico Fragile. Cantava Fabrizio de André come alla fine delle sue dita dovesse necessariamente, “in qualche modo, incominciare una chitarra”: dove finiscono le dita di Jonas Mekas è sempre iniziata una macchina da presa. Una macchina da presa come un terzo occhio sulla propria vita, una macchina da presa come immortalità di un attimo, una macchina da presa che alle risposte ha sempre preferito le domande. I Had Nowhere To Go è un viaggio radicale in cerca delle radici, estrema scarnificazione che da omaggio assoluto sogna anche il passaggio di consegne. È un viaggio nel nero, dove l’idea di negazione dell’immagine coincide con il suo ritorno esplosivo sulla scena attraverso il buio in sala visto come materia e materiale insieme di una fisica incontenibile e incontenibilmente umana.