"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

SIGNS OF CHAOS (1) - The Other Side of the Wind (Orson Welles)

Sunday, 02 December 2018 18:59

Naked

O signo do caos

Dove sono Jake Hannaford/Huston, Dennis Hopper e Claude Chabrol? All, all, are sleeping, sleeping, sleeping on the hill… Dove gli attrezzisti e le comparse, i tecnici, i giornalisti e i critici, producers, cameraman? All, all are sleeping on the hill. Il The Other Side of the Wind visto a Venezia come film definito e versione definitiva dell’opera incompiuta di Welles viene presentato come ‘Antologia di Spoon River’ di una Hollywood che fu, precisamente quella dei primi anni ‘70, quando i sopravvissuti dell’età dell’oro si incrociano con la New Hollywood. John Huston/Hannaford e Peter Bogdanovich/Otterlake sono queste due “ere cinematografiche”, le incarnano ora come allora, fuori e dentro tutti i film (im)possibili, scatenati, frantumati in modo che niente sia contenuto in The Other Side of the Wind. Susan Strasberg e Joseph McBride e così via via tutte le maschere, nomi, volti che sfilano, riecheggiano, si ammantano (come la neve in The Dead, l’ultimo Huston, che dopo questo film riusciamo a vedere ancor meglio come capolavoro da un al di là tra Joyce e Welles) per due ore, sono immagini lapidarie di anime perse, è una chiamata a raccolta di spiriti della cinefilia per un’ultima notte.

The Other Side of the Wind (Orson Welles)La versione del film presentata a Venezia è un racconto a metà tra un’orgia tragica e una seduta spiritica, una storia che si svolge tutta in una notte, quella in cui J.J. Jake Hanneford, che ci è dato immediatamente per morto da una pretesca protettiva e salvifica voce fuori campo, compiva 70 anni. Introdotti dall’ormai vecchio sopravvissuto Otterlake accompagniamo Hanneford dall’uscita dagli studios fino all’uscita di scena all’alba, fatale un incidente stradale come per Murnau, vediamo il suo ultimo party e parti del suo film interrotto e destinato a rimanere incompiuto, quel The Other Side of the Wind che è tanto il fine mancato quanto il titolo da cui tutto ha inizio. Who The Devil Made It? Chi c’è dietro questo meraviglioso e struggente puzzle ritagliato da Bob Murawski? Sempre Peter Bogdanovich/Otterlake, per questo la sua voce può darsi come salvifica in netta contrapposizione con il cinismo amorale che Welles carica sul suo personaggio/avatar. Bogdanovich, in modo diabolico, letteralmente doppio, salva dall’oblio e porta a compimento l’opera secondo le volontà dell’autore/Signore, da servo e rappresentante di quest’ultimo, ma allo stesso tempo non può non dirigere, appropriarsene, farne una critica, nel senso più vero e profondo del termine. Seppur rimanga il dubbio che spesso si scambi un bestiario per un’Arca di Noè, ciò non toglie nulla alla forza e alla meraviglia dell’operazione. D’altra parte che il progetto abbia sin dalle origini una natura metacinematografica lo conferma anche Oja Kodar quando narra che The Other Side of the Wind è il nome che lei ha dato all’immagine di Orson Welles che attraversa gli studi di Cinecittà a Roma, battuti da un forte vento, nel 1969, mentre insieme andavano in cerca di soldi per i loro progetti. A partire da questo titolo Kodar iniziò a scrivere un altro film che poi si unì a un altro che intanto aveva iniziato a scrivere Welles per diventare il titolo del film che si sta girando nel film... Basterebbe questo cacofonico elenco a dire una volta per tutte che The Other Side of The Wind non è mai stato e mai sarà solo un film: è tanti film, addirittura è tutti i film, quelli fatti e quelli da farsi, perduti ritrovati, mai iniziati finiti, ma mai sarà uno. Come e più di tutte le opere di Welles The Other Side of the Wind è un pluriverso non un universo. È quella che più delle altre mostra la natura orgiastica del cinema di Welles (un baccanale tragico dove Hanneford è il caprone più bello che officia il rito e si offre in sacrificio), The Other Side... è un'opera polifonica e carnevalesca nel senso bachtiniano, da Rabelais a Dostoevskij passando chiaramente per Cervantes. Dal riso alla morte, il sacro e il profano, il sacrilegio, il grottesco tutto si mescola, balena e si dilegua, ritorna, si disfa mutando in altro frammento dopo frammento.

The Other Side of the Wind è un’orgia di macchine da presa, di diversi formati, tipi di pellicole, è colore e bianco e nero, muto, sonoro, è come se Orson Welles, novello Eolo, avesse aperto l’otre e scatenato tutti i venti del cinema riducendo a brandelli, come il suo Don Chisciotte, ogni schermo, ogni protezione possibile. Welles ha scoperchiato il vaso, lo ha fatto con la naturalezza di un bambino, da homo ludens, unita a un’esperienza da homo sapiens per lasciarci intravedere il caos, un vuoto primigenio in cui tutto muta ma niente ha fine. I frammenti wellesiani sono come piume in un tornado o pezzi di legno in una tempesta, emergono un istante per poi essere inghiottite e tornare diverse, lasciandoci ogni volta immaginare con paura e desiderio l’abisso in cui fluttuano. “Ho sempre pensato a lui come un elemento naturale, senza genitori né fratelli…“ scrive ancora Oja Kodar a proposito di Welles e The Other Side of the Wind, è con le forze della natura che l’homo Welles cerca il confronto e lo scontro alla ricerca del caos della creazione in cui tutto finisce per rinascere. L’infinito è la cifra di Welles, è lì che il naufragar gli è dolce, a lui interessa al massimo il cinema come segno dell’immenso caos che si cela sotto ogni immagine, troppo poca cosa è un film, un prodotto finito. In questo magma c’è uno sguardo, cinico lucido e feroce sulle miserie umane e la povertà del “mondo del cinema”, ma anche sulla potenza del cinema stesso nel vedere l’invisibile, superare i limiti della nostra finitezza. Nel baratro l’occhio di Welles coglie con precisione il cinema passato, quello presente e quello futuro. La presenza di Hopper, autore di Easy Rider ma soprattutto di The Last Movie (altro film impossibile da terminare che finisce con la moltiplicazione della fine), come di Chabrol, il più americano dei registi della Nouvelle Vague, rappresentano scelte precise, frutto del caos e non del caso. Così la supposta parodia di Zabriskie Point nel film che Hanneford/Huston sta provando a portare a termine, scorge quel senso del comico del cinema di Antonioni per cui ricevette un premio a Taormina da Carmelo Bene. E ancora, quanti sono gli echi della ricerca narrativa del Godard di Pierrot le fou o Le mépris, Week End, e quanti i riverberi del New American Cinema e il suo stile familiare? In egual modo non si contano le immagini ‘anticipate’ in The Other Side of the Wind: ci sono lampi di Lynch, Sodebergh, Fincher e le immagini stilizzate e patinate di Oliver Stone, il racconto esploso dell’ultimo Malick e la logorrea tarantiniana… tutto e tutti sulla stessa barca (e questa barca è un Titanic).

Impossibile fare un film dalle cento ore circa di girato, impossibile per tutti, per il suo stesso autore, sciamano, demiurgo. Ogni tentazione filologica non può che andare a farsi benedire, chi cerca il The Other Side of the Wind di Orson Welles è destinato a trovare al massimo la consolazione pretesca e accettare le volontà di un signore di turno. A ognuno è dato sognare le proprie versioni, a me sarebbe piaciuta quella di Rogério Sganzerla, forse il cineasta che più ha compreso e fatto propria l’opera di Welles, a cui ha dedicato tanto studio, fatto quattro film (Nem Tudo è Verdade, A Linguagem de O.W., Tudo è Brasil e O Signo do Caos), ma soprattutto con il suo O Bandido da Luz Vermelha (1968), aveva pre-visto la trasformazione del cinema di Welles, il suo tessuto sonoro smagliato, la narrazione frenetica, la visione esplosa. Oppure, all’opposto, una versione montata da Ciro Giorgini, il più donchisciottesco dei wellesiani, che non avrebbe tolto neanche un frame alle cento ore di girato e probabilmente ci avrebbe fatto scoprire che sono molte di più. Anche il girato, tutto e “immacolato”, non sarebbe altro che una versione, monstre, di mille e mille versioni possibili, senza nulla togliere o aggiungere alla forza che sprigiona ogni singolo frame. Le poche schegge del film lasciate montate da Welles, hanno brillato diverse volte nelle notti di Fuori Orario, e a enrico ghezzi sono bastate per creare una “cosa”, una specie di festival chiamato “Il vento del cinema”, con al centro una jam session che tanto somigliava al party di Hanneford/Huston. La questione è stabilire un’affinità elettiva, abbandonarsi alla paura e al desiderio del caos. Siamo tutti invitati, nessuno escluso. Sarebbe bello che chiunque avesse la possibilità di farsi il suo The Other Side of the Wind, una e-versione elettronica, una cloud, nuvola, con tutti i materiali, filmati, sonori, cartacei messi a disposizione di chiunque voglia giocarci. La sovversione, l’unica versione (im)possibile di The Other Side of the Wind.

 

 

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