"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

SIGNS OF CHAOS (2) - Zan/Killing (Conversazione con Shinya Tsukamoto)

Sunday, 02 December 2018 18:59

Lorenzo Esposito

La spada contro lo schermo

 

Zan (Killing) inizia con l’immagine del fuoco e di una spada che viene forgiata. Pellicola che brucia? Inizio della proiezione? Tutto il tuo cinema sembra legato a un’idea di punto di combustione dell’immagine.

 

 

Il fuoco fa parte della nostra vita, e mi interessa perché in esso convivono i due elementi opposti della creazione e della distruzione. In questo caso c’è un legame preciso con l’ultima scena del mio film precedente, Nobi, che finiva con i personaggi che guardavano l’incendio. Per me è come se stessero guardando il futuro, la realtà del film successivo, che dunque ricomincia esattamente da lì.

 

 

Questo percorso di fuochi da un film all’altro è affine a una sorta di riattraversamento del cinema giapponese cui questi ultimi due film sembrano alludere?

 

 

Nobi era un film di guerra, Zan un film di samurai, il prossimo chissà, un film di mostri… Ma la verità è che per me ogni film nasce da un’idea singola sulla quale mi concentro ossessivamente esplorandone l’intensità.

 

 

In questo senso Zan mi ha ricordato molto Gohatto (Tabu) di Nagisa Oshima.

 

 

Può darsi, ma non ci ho pensato. Un film che avevo in mente è Matatabi di Ichikawa, è un film degli anni settanta dove ci sono queste figure di ronin erranti e soprattutto - e questa è la cosa che mi interessava di più - aveva la specificità di raccontare la loro giovinezza. Per quanto riguarda altri riferimenti, ci sono sicuramente Akira Kurosawa e poi la serie su Zatoichi.

 

 ZAN/KILLING (CONVERSAZIONE CON SHINYA TSUKAMOTO)

C’è un film di Kurosawa, il suo primo film, Sugata Sanshiro, di cui Zan sembra addirittura il remake, sia per il romanzo di formazione su cui si fonda la narrazione, che per l’uso frenetico della camera (nel caso di Kurosawa soprattutto nell’incredibile duello finale).

 

 

Si è vero, anche se non vedo questo film da molti anni, e se devo essere sincero ho pensato più a Yojimbo. Però adesso che me lo dici, credo che Sugata Sanshiro evidentemente mi sia rimasto dentro e che dunque ci sia un riferimento inconscio.

 

 

Il tuo ragazzo protagonista affronta il dilemma di cosa vuol dire avere una spada in mano. C’è un legame fra i movimenti della spada e quelli della camera? Tenere in mano una camera pone lo stesso tipo di responsabilità che tenere una spada?

 

Domanda interessante. Effettivamente con la macchina da presa puoi fare altrettanti danni che con una spada… Sono due strumenti pericolosi, a seconda della tua scelta puoi anche cambiare il destino di una persona…

 

 

Per questo durante tutto il film, nonostante l’uso febbrile della camera a mano, si ha sempre la sensazione di una tua posizione di domanda e di riflessione, come se appunto ti interrogassi continuamente sull’uso che ne stai facendo, sul tipo di spazio filmico che da quei movimenti deriva.

 

 

È quello che cerco di fare, aprire uno spazio di riflessione. Non mi interessa fare un film che segue uno schema prestabilito, né mi interessa avere il controllo della comprensione dello spettatore. Quello che voglio è creare uno spazio in cui lo spettatore possa muoversi liberamente.

 

 

È molto raro vedere un film di samurai girato tutto con la camera a mano, forse sei praticamente l’unico.

 

 

Si, di solito i film di samurai si concentrano sulla bellezza classica del movimento della spada, ma a me interessava mettere in un film di samurai dei personaggi moderni, anzi contemporanei, e per far questo mi serviva rompere con certa linearità e chiarezza di movimento tipica di questo tipo di film.

 

 

Con quante camere giri?

 

 

Una. Giro personalmente le scene in cui non ci sono come attore, le altre ci pensa l’operatore e talvolta l’aiuto regista.

 

 

C’è dunque un lungo lavoro al montaggio per raggiungere il ritmo di cui hai bisogno.

 

 

Si, specialmente in questo film dove le riprese sono durate pochissimo, più frenetiche anche dei movimenti di macchina.

 

 

Al montaggio sei da solo?

 

 

Si.

 

 

Come definiresti il tuo rapporto con la camera? C’è un elemento erotico, di compenetrazione?

 

 

Non penso che la macchina da presa in sé sia portatrice di un elemento erotico, ma penso che ci sia erotismo nel tipo di idea inconscia che ho rispetto alla messa in scena, una sensualità nello slancio che provo verso una storia e i suoi personaggi.

 

 

C’è comunque un dato fisico evidente nel modo in cui giri. Ti stanchi di più come operatore o come attore?

 

 

Nel mio modo di lavorare il film comprende molte parti di me. Regista, attore, operatore, sceneggiatore, ciascuno di questi ruoli concorre a fare il film, e mi stancano tutti allo stesso modo, nel senso che provoco volutamente uno stress unico e insieme diffuso nei confronti del mio corpo.

 

 

C’è una scena in cui i due protagonisti si toccano e si leccano le dita attraverso le fessure di una parete. Volevo sapere se hai mai visto Un chant d’amour di Jean Genet.

 

 

No, purtroppo.

 

 

Puoi dirmi qualcosa sulla meravigliosa sequenza finale che continua sui titoli di coda? C’è un grido e poi la camera rimane da sola nel bosco e vaga nel vuoto, la luce diventa più opaca…

 

 

Ho fatto in modo che scendesse il buio come se calasse un sipario. Come molte cose che faccio è stato un gesto istintivo. Resto lì, guardo nel vuoto, non so più cosa riprendere.

 

 

 

 

Si ringrazia Gloria Zerbinati per la gentilezza e la disponibilità e la passione nell’offrirmi l’opportunità di questo incontro. (l.e.)

 

 

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