"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

CINEMA PSYCHODRAME (5)/Berlinale 2019 - Ne croyez surtout pas que je hurle (Frank Beauvais)

Sunday, 28 April 2019 10:23

Erik Negro

Il mostro schermo

Il giorno della morte di Jonas Mekas, mentre riguardavo frammenti di As I Was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty (forse l’unico film, in un certo senso, che poteva chiudere un millennio per aprirne un altro), un’amica mi chiese perchè avrei dovuto guardare un fiore sullo schermo invece di passeggiare nel parco per vederlo. Quella domanda, nella sua drammatica semplicità, me la sono portata nei due viaggi a Rotterdam e a Berlino. Fino al momento in cui sono iniziati a scorrere gli abnormi titoli di coda di Ne croyez surtout pas que je hurle di Frank Beauvais, un viaggio al termine delle nostre ossessioni (di coloro che stanno al cinema perchè non così in grado di esistere in rapporto con se stessi e con gli altri, di quelli che il cinema lo fanno e - peggio ancora - pure lo leggono). Privatissimo, quasi intimo e (auto)pornografico nel sezionare l’anima di un uomo davanti al mostro dello schermo, eppure così universale da renderlo urticante e quasi respingente. Un film straordinario, non tanto per il mirabile lavoro di montaggio - sempre teso tra affinità e divergenze, costantemente in movimento nella sua immobilità, moltiplicando piani e particolari, quadri e formati, colori e grigi - e per la struttura interna al dialogo tra immagini (e sezioni di esse) apparentemente inconciliabili: fuori dall’ordinario nel suo essere confessione unica di fragilità e inettitudine al cospetto della rappresentazione del sé. Un atto di coraggio al limite della follia, nella forma gargantuesca del fagocitare immagini di qualsiasi tipo per trarne linfa vitale (?) aldilà di cosa possa significare convivere con l’insonnia e l’apatia, con l’ansia e il panico, con la ferita dell’abbandono e la deriva della depressione. Un’unica via dunque (come direbbe, se ancora ci fosse, Corso Salani). Perchè al cinema, in fondo, si possono provare emozioni che mai nella vita avremmo il coraggio di affrontare..

BeauvaisNella primavera di tre anni fa Beauvais iniziò il suo percorso di visioni magnifiche e ossessive (oltre 400 audiovisivi di ogni genere e forma) nel tentativo di superare un’iniziale crisi esistenziale (anche dovuta alla separazione dal suo compagno). Si erano trasferiti nell’amena Alsazia (lontana dalla sua Parigi), e quello spazio ora diventa isolamento e solitudine, mancanza di prospettive e bisogno di un’altra dipendenza che potesse liberarlo da quella dell’amore mancato (come dalla figura del padre riconciliatosi con lui, dopo non aver accettato inizialmente la sua omosessualità, poco prima della morte). Sei mesi di visioni ininterrotte a scandire le giornate (come il battito del cuore destrutturato visto in un frammento educativo e didattico, quasi in apertura), a segnare il crinale di una malattia pulsante, quella della mente, quella che tutto il mondo esclude (se non quello dello schermo). E poi il montaggio, la selezione del frammento e del particolare, la riscrittura di una narrativa quasi inconscia e misteriosa, terribilmente cupa, eppure piena di piccoli bagliori accecanti. Epifanie e rivelazioni, commentate dalla voce dello stesso Beauvais in un testo diaristico più vicino al flusso che alla narrativa, dispersivo e ipnotico, un dolcissimo galleggiamento a pochi metri (o fotogrammi) dal baratro. Intanto il mondo, attorno alla sua capsula cinematica, esplode. Terremoti e terrorismi, disperati che prendono la via del mare per lì morirci, icone e figurine del secolo scorso che scompaiono o riemergono. Lo stato d’emergenza globale si affianca a quello personale, vulnerabilità e precarietà, mancanza di un futuro necessario (anche il più vicino possibile) per poter respirare. Intanto lui rimane lì, in una continua paralisi di frenesie e nevrosi, con il suo tempo arrotolato come una spirale attorno ad uno spazio minimo. Infinitamente espanso da mondi altrui, quelli delle immagini erette e distrutte, disossate e centellinate, abusate in un tentato suicidio dell’immaginario personale (anche se balena, nello scritto, la possibilità della forma più fisica di esso), nel sacrificio verso quello universale. Cosa c'è di più profondo nello sparire fondendosi in un oceano di immagini?

 

Non avrebbe senso parlare di ciò che si vede (e forse nemmeno di ciò che si ascolta) in questo film. Non avrebbe senso perchè ognuno di noi ne sceglierebbe altri, e li monterebbe in un altro modo, commentandoli con altre parole. “Ho scoperto una forma di intossicazione nella mia solitudine che, a poco a poco, si è trasformata in vertigine”. Ad ognuno il suo cinema, ad ognuno la sua vertigine. Nella serie continua di dicotomie (nido-gabbia, rifugio-prigione, finestra-specchio) si nasconde la straordinaria chiave dialettica di uno dei film più dolorosi, puri e nudi che ultimamente mi sia capitato di vedere. Salvezza e dipendenza, campo e controcampo di un sentire comune (e, a tratti, insostenibile) a cui questi settantacinque minuti ci chiamano a raccolta. Per tutti quegli attimi passati intrappolati in un immaginario, nell’incrocio di uno sguardo in macchina, per tutti quei momenti in cui aggrappati ad una telecamera ci siamo fidati della sua possibilità di catturare e congelare un attimo decidendo così di non viverlo nella sua completa pienezza. Per tutti i sogni che abbiamo attraversato, nell’eterno dilemma che ci porta al fare o guardare film, alla perversione di quel desiderio che può mostrarsi indefinibile pulsione di annullamento e naufragio al cospetto del vivere. A tutte quelle volte in cui il destino ci ha chiesto di amare e noi, tutto ciò, l’abbiamo consegnato e postulato in un’immagine (solo per poi sentire il ma che, tutto ciò, può provocare). Un’attrazione fatale con cui combattere l’orrore del mondo e il dolore del sé; una nuda dichiarazione di impotenza davanti alla realtà che destabilizza al punto di volerti rannicchiare in te stesso per poter, con un piccolo slancio, abbracciare la tua anima. Ne croyez surtout pas que je hurle è forse solo un delirio di provvisorietà, terribilmente nostro, nel tentativo di vivere emozioni senza esserne scorticati nello stesso momento in cui esse fuggono. Infine però arriva la sua fuga, finalmente fisica e materica, o forse il ritorno. Tornare a Parigi per ritrovare la propria vita o almeno cercarla (proprio come Marcel con il suo tempo, dopo sette romanzi di gioie e dolori, luce e bui). Se non una liberazione, almeno una prospettiva; finire un film per iniziarne un altro, possibilmente più "reale", anche se esso può apparire solo come un’utopia. Stop! Un paio di giorni fa mentre intervistavo un’altra amica - per completare una mia video-cosa altrettanto intima e forse dolorosa, ma senza dubbio molto più insignificante, di cui sono al montaggio matto e disperatissimo - mi sono ritrovato a parlare della domanda iniziale, di Mekas, del millennio, di noi, delle immagini, di questo film così unico, del non riuscire ad esprimere le proprie emozioni e così nascondersi in quello spettro di codardia (o forse alibi) che può essere il cinema. Dunque? Che strano gioco, avrebbe detto un giovane Godard, che esso coinvolga la vita o il cinema (a me/noi, come probabilmente a Beauvais, poco cambia). Un fiore sempre un fiore è; così vale anche per un urlo (anche per quello più silenzioso possibile).

 

 

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