"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

THE LAST THINGS BEFORE THE LAST (8) - The Frenchman (Andrei Smirnov)

Sunday, 07 June 2020 12:41

Giuseppe Gariazzo

Un film flâneur

Un film flâneur, A Frenchman. Un film, quello di Andrei Smirnov, che va a spasso nel tempo e nello spazio (del cinema, della vita, dei sentimenti), ovunque testimone di uno stato di sospensione che si ri-genera, scena dopo scena, infinito. Un film realizzato oggi (2019) che sembra però arrivare, che arriva, dal periodo in cui è ambientato, la fine degli anni Cinquanta a Mosca, ma con un significativo prologo (di flagrante identità filmica) a Parigi, nel dehors di un caffè lungo la Senna dove il futuro protagonista Pierre e una giovane coppia discutono di politica, guerra d’Algeria, comunismo nell’ultimo incontro che li vedrà insieme prima di prendere, volute o imposte, destinazioni differenti. Un film di luminosa in-attualità, un corpo che dice il suo essere alieno, che ci raggiunge ora, dopo un lungo cammino durato oltre mezzo secolo, per ricordarci le nostre fragilità, le nostre necessità autentiche, le nostre responsabilità, i nostri gesti in avanti per (almeno cercare di) non soccombere alle cupe manovre di un (qualsiasi) potere il cui proposito, immutato, mutato solo nelle forme della comunicazione, rimane quello della negazione di un (qualsiasi) pensiero, di una (qualsiasi) azione, da esso ritenuto sovversivo. Eppure bisogna sovvertire. A Frenchman, da quella distanza, da quel 1957 così comunicante, ci interroga tutti, ci parla del vivere sospesi, incerti, separati, oggi, claudicanti e senza memoria. Invece, il capolavoro di Smirnov (da vedere e ri-vedere), attraverso la narrazione di una storia d’amore, afferma in ogni inquadratura quanto la memoria sia imprescindibile, quanto il ri-conoscersi (su tutto, il ri-trovarsi di un figlio e un padre, il ri-trovare, il figlio, infine un padre mai conosciuto) sia inderogabile, qualunque sia la fatica da mettere in campo. Solo così, applicando gli anticorpi necessari, si possono di-segnare possibili scenari affacciati sul futuro affinché “tutto non debba essere/non sia più come prima”.

Memoria, e verità (altro elemento di cui si sente una gran mancanza…). “Dedicato a chi non vuole vivere nelle menzogne”, è la didascalia finale di A Frenchman. E a chi non vuole soprav/vivere in una cappa di autoritarismo. Con il respiro, le epifanie delle nouvelles vagues (non pare quindi un caso quell’inizio parigino, così francese…) nascenti proprio a metà-fine del decennio individuato dal cineasta russo per A Frenchman, primi gesti che si sarebbero fatti adulti negli anni Sessanta; con la scelta di ricorrere alla lucentezza del bianconero; con la ricostruzione impeccabile della quotidianità moscovita (si pensi anche solo agli interni, agli appartamenti densi di oggetti, di persone, siano esse studenti e studentesse o donne e uomini adulti o anziani, e del freddo di un inverno che s’insinua dappertutto), Smirnov a 79 anni ha fatto uno dei film più giovani di questi anni, mantenendo intatta tutta la sua poetica libera, ariosa, piena d’energie di quel nuovo cinema “aldilà del disgelo” che pure frequentò limitatamente per via delle continue pressioni delle istituzioni. A Frenchman potrebbe essere così un film scongelato finalmente reso visibile e fratello di tanto cinema di quel periodo: sovietico/russo, certo, ma non solo, con echi del Truffaut a venire di Jules et Jim (nelle scene con i tre protagonisti “a zonzo per Mosca”, a piedi o su mezzi pubblici, vicini, abbracciati) o del Cassavetes notturno delle sue prime improvvisazioni filmiche (nella scena in cui Pierre, Kira e Valera si recano nel locale jazz underground)…

Nei tre giovani - il mezzo francese mezzo russo Pierre, a Mosca per studiare ma soprattutto alla ricerca del padre, la ballerina di danza classica Kira e il fotografo Valera, che lavora per un giornale che il regime farà chiudere - tutto è scoperta, desiderio di movimento, sensualità, incontri, imprevisti, di posto in posto, di casa in casa, con quella flânerie leggera e intensa che non li abbandona mai. Sono attraversati da nuove onde, così come da una costante condizione d’incertezza. Sarà la separazione a spalancarsi su di loro, mentre il film si fa sempre più potente nel descrivere gli eventi. Appena incontrati, e al termine di una notte trascorsa a parlare di prigionia, filosofia, matematica, Russia e Unione Sovietica (una lunga seduta teatrale che è il cuore del film), figlio e padre saranno già costretti a separarsi per sempre (il genitore morendo poche ore dopo). Valera viene imprigionato e Kira non può far altro che salutarlo da lontano. Pierre torna a Parigi e la storia d’amore con Kira, se non interrotta, è temporaneamente sospesa, nell’attesa che, forse, lei si rechi nella capitale francese in tournée.

Tempo sospeso. Tempo interrotto. Tempo apocalittico. Ma di un’apocalisse - per queste vite, per queste immagini, nel confrontarsi/scontrarsi con essa, in un gioco di specchi tra ieri e oggi (e domani?) - nel segno dell’emersione del significato originario della parola (come ha ben evidenziato su Alias Raffaele K. Salinari nel suo intervento intitolato “Apocalisse pandemica” - sabato 18 aprile 2020). Scrive Salinari che il termine greco vuol dire “scoperta”, “svelamento”, e che “vediamo bene come nel concetto di apocalisse sia contenuta una tensione positiva verso il disvelamento delle verità ultime, del fine stesso della vita e non certo l’immagine della sua fine”. Che il cinema non smetta di illuminare questo passaggio.

 

 

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