"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

THE MEDUSA’S EYE (3) – Notturno (Gianfranco Rosi)

Sunday, 14 March 2021 14:00

Lorenzo Esposito

Il rito

Cosa è successo in questi mesi alle persone filmate in Notturno da Gianfranco Rosi? Ad Ali che mantiene la famiglia ed è solo un bambino. Alla madre in esilio in Germania che sente la voce della figlia in mano all’ISIS solo quando la ragazza riesce (segretamente? In quali condizioni? Da quale zona del Medio Oriente?) a mandarle dei vocali sul telefono. Alle guerrigliere curde. Al cacciatore delle paludi in Iraq. Ai bambini yazidi nell’orfanotrofio dove disegnano i loro incubi. Ai sopravvissuti alla guerra finiti in un manicomio iracheno. Agli stessi detenuti ‘in rosso’ appartenenti all’ISIS. Ai due amanti che passano una serata insieme mentre in lontananza infuria la guerra. Cosa si potrà pensare di questi fantasmi così reali tra venti, trent’anni quando Notturno verrà rivisto?

Un documentario, se è un documentario, non fornisce risposte a queste domande. Un documentario solleva queste domande non sollevandosene affatto, sorreggendone il peso. Un documentario documenta solo l’illusione del documento, ed è invece l’archivio futuro di un racconto romanzesco, la storia della battaglia dell’uomo con la realtà, con la sua inafferrabilità, con la terribile impotenza di chi sa che anche filmare (o raccontarla) forse servirà a poco.

Notturno (Gianfranco Rosi)Eppure, se è proprio quel poco che bisogna inseguire, ogni giudizio etico sul documentario (su quello che è o dovrebbe essere) è risibile e improprio. La scelta di principio (chiamatela etica, così è se vi pare) di Rosi in Notturno è di indicare all’inizio velocemente i luoghi e poi dimenticarli. Tre anni al confine tra Siria Libano Iraq e Kurdistan, in una zona dove c’era l’ISIS che, all’arrivo di Rosi, stava arretrando (mentre oggi avanza di nuovo). Non è solo un’impostazione teorica, per cui il filmmaker reagisce da un lato all’operazione tragicamente fittizia delle linee (altro che confini) tracciate nel 1916 (Picot..) e che hanno provocato il continuo mutamento di confini inesistenti, la guerra perpetua di identità forti su altre in minoranza; e dall’altro all’operazione semplicemente assassina dell’ISIS che i confini e le identità li vuole cancellare del tutto sulla base di una pura dominazione dell’essere umano sull’essere umano. Ben più a fondo, e con molto più rischio, il documentarista finge di allontanarsi dal dato informativo perché l’unica informazione è la realtà delle persone che vivono e sopravvivono in queste zone, e perché questa apparente deviazione verso l’anonimato è proprio ciò che rende Notturno (o un cosiddetto documentario) sempre comprensibile senza bisogno di precisazioni geografiche o contestualizzazioni socio-politiche (per quello c’è il giornalismo, che infatti si interessa di quelle zone per una settimana e poi, finita la conta dei morti, sparisce). Perché quelle persone sono tutte le persone e non c’è bisogno di nomi e cognomi (per quello c’è la polizia). Questo non vuol dire che l’obiettivo sia capire, anzi al contrario si tratta di filmare l’incomprensione, il non sapere, filmare loro per dire qualcosa sulla nostra confusione, sulla nostra ignoranza. (A me è capitato di passare molto tempo in Siria prima della rivoluzione, facendo finta, come tutti del resto, che non si fosse in una dittatura, ed era la società civile che lo permetteva, le comunità religiose, le identità politiche più differenti vivevano insieme rispettandosi, e questo ti faceva amare l’antica follia di Damasco, o godere del vento estivo un po’ sconsiderato dei giovani di Aleppo: ebbene, ancora adesso, non capisco come ho fatto a essere così cieco, come possa essere accaduto tutto quanto è accaduto in seguito).

Dal punto di vista filmico questa è la via più ardua. Lavorare su confini aperti, sul vuoto, sulle attese, su comunità che basta qualche chilometro più in là perché non si capiscano più, su un territorio mutevole e martoriato, significa cucire la realtà in modo che due note distanti siano la stessa nota senza bisogno di didascalie ma insistendo invece a interrogare questa distanza. Il fatto che poi questo spazio incognito diventi per Rosi anche un luogo cinematografico prediletto dove la luce e l’inquadratura fissa e il sonoro (sordo, ininterrotto, segno di una guerra infinita anche quando invisibile) sono i veri personaggi, è il passaggio - la sua idea di cinema - che lo espone a più equivoci (soprattutto da parte di chi dice di sapere cosa è il documentario). Ma anche questa critica, mi dispiace, è figlia di una neanche tanto malcelata malafede. Quel tramonto è troppo estetizzante, quell’immagine è troppo bella. Il punto è che, se si è stati in questi luoghi, si sa che un morto ammazzato per strada, un popolo affamato e in fuga dalla guerra, convivono con la bellezza inarrivabile del paesaggio, di un tramonto infuocato che scende sulla terra macchiata di sangue. Si chieda a Gitai e Suleiman. Godard che filma riunioni dei combattenti palestinesi seduti sotto piccole foreste di bellissimi ulivi, salvo avvisarci che questi uomini stanno per morire, sono già tutti morti (Ici et ailleurs). Un cacciatore scivola silenzioso di notte nella palude sfruttando il fuoco dei pozzi di petrolio: non mi sembra che qualcuno si sia mai lamentato di tale incongrua immensità, di tale bellezza obliqua e quasi surreale dei pozzi in fiamme in Kuwait quando è stata filmata da Werner Herzog in Apocalisse nel deserto (e com’era il titolo originale, giustamente conscio della complessità in gioco? Pensateci: Lessons of Darkness).

 

 

Come Herzog, Rosi passa molto tempo (in questo caso addirittura un anno) senza filmare nulla, solo per sentire il respiro e il tempo dei luoghi e delle persone che, lentamente, vengono esplorati e avvicinati. All’inizio gli incontri sono tutti casuali, istintivi ma approfonditi e rincorsi al punto che, quando si ritorna sul posto con la camèra, la fatica maggiore è riconquistare la distanza. Ecco perché, come da lui stesso dichiarato, Rosi gira Notturno senza sapere cosa si sta dicendo, senza traduzione, scoprendo poi al montaggio non solo il significato delle parole ma che quelle parole non lo sorprendono, corrispondono a ciò che sentiva girando. Non c’era necessità di contenuto dove era già tutto contenuto (questo è il cinema, documentario o meno). Non sappiamo nulla di Ali, a parlare sono i suoi primi piani. I suoi gesti quotidiani sono il rito, il suo sguardo è l’archetipo (come le madri e i militari all’inizio del film). L’elemento narrativo è quasi astratto, eppure tutto è narrativo. I personaggi sono messi in scena? Wiseman ha mai messo in scena qualcosa? Eppure la sua opera è un unico grande romanzo. No, sono loro che mettono in scena se stessi, ed così che la loro realtà non viene intaccata. Ecco il cuore di questo film, in Notturno non c’è nessuna osservazione, c’è la sfida di trasformare la realtà mostrando la trasformazione continua che le è propria. Questo passa anche per ciò che nella realtà stessa è incongruo e instabile. L’istinto sta nel sentire quando questo mondo in combustione si addolcisce terreo nella sospensione, nel vuoto, nell’ansia di una quiete incerta, nello sguardo in macchina di un cavallo nel mercato di Tripoli, Libano.

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