"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

LE TEMPS RETROUVÉ (1) - Mank (David Fincher)

Sunday, 14 March 2021 13:59

Edipo Massi

Verità e oblio

La concezione delle falde temporali (per usare un passo ‘cinematografico’ di un famoso filosofo) di Mank è l’esatto opposto di quella di Benjamin Button. Il tempo procede all’indietro verso zone sensibili del passato dove, arrestandosi, si dilata e ricomincia ad avanzare. L’accumulo di questi movimenti confluisce ogni volta nella posizione proustiana - letto, menomazione fisica, scrittura, un angelo del focolare (la segretaria inglese Rita Alexander) a cui dettare l’Opera - nella quale il leggendario sceneggiatore Herman J. Mankiewicz è costretto durante la stesura della più grande intrapresa della sua carriera: la sceneggiatura di Citizen Kane di Orson Welles (se proprio non si vogliono considerare, tra le altre, Thunderbolt, Dinner at Eight, The Enchanted Cottage, oppure certi interventucci non accreditati, anche come produttore, per Monkey Business, Duck Soap, The Wizard of Oz...).

D’altra parte, al contrario di Benjamin Button, Mank è nato vecchio, la sua vecchiaia - complice l’alcol (il cui abuso è l’unico punto di contatto con l’à rebours placentare di Button: la moglie lo sveste e lo mette a dormire come un neonato) - a un certo punto gli si è cucita, scolpita addosso (da qui la perfezione di Gary Oldman che Fincher stesso racconta così: “Look, I’m 58. Gary, to me, looks like he’s my age. Herman, at 43, looked like he was 55. And by the time he died at 55, he looked 70. Herman lived hard. He did himself no favors through cigarettes and alcohol. Again, we could look for a desiccated 43-year-old, but in my business, the best actor wins”). In termini di congiunzioni astrali, l’incontro di Mankiewicz e Welles avviene dunque su un doppio precipizio: la massima vecchiaia dell’uno e la massima giovinezza dell’altro, doppia faccia del medesimo orlo del baratro che genera un big bang di nome Citizen Kane.

Fincher, che a ben vedere sembra letteralmente ossessionato dall’idea della vita messa in pericolo dalle strutture temporali in cui si accende brucia e finisce (Zodiac, The Social Network, Mindhunter…), è davvero di un rigore proustiano. I suoi angeli della notte, di cui Mank, benchè ultimo della serie, potrebbe essere il prototipo, sanno che non c’è mai modo di essere conosciuti in modo compiuto e che la personalità passa per un prisma incandescente fatto di punti di vista altrui, parabole temporali, falsi ritorni, ombreggiature. Tutto insieme: la realtà muta, l’io muta, psicologia e patologia si accavallano esaltandosi a vicenda. Mank, novello Marcel affossato sotto le coperte, ‘vede’ nella struttura di Citizen Kane l’eterna battaglia tra oblio e verità, entrambe macchine morbide del tempo che producono simultaneamente amnesie e squarci di memoria sotto forma di autentici stati di esaltazione (‘chissà perché’ viene in mente Edgar Allan Poe: “Io so che l’indefinitezza pertiene alla vera musica”).

Ok, ok. La primogenitura della sceneggiatura di Citizen Kane non è per nulla chiarita. Nulla di sorprendente: prima di parlare bisognerebbe conoscere la condizione lavorativa degli sceneggiatori hollywoodiani negli anni trenta e quaranta (alcuni casi sono emblematici: William Faulkner…), nonchè riflettere su certi produttori creatori a tutto tondo (Elia Kazan, e lo stesso Faulkner, avevano un’idea di Irving Thalberg un po’ diversa da quella di Fincher), e magari anche notare che figure come Welles sono casi estremi e irripetibili, e magari anche ricordare che “un albero è un albero”, basta filmarlo in Griffith Park. Come se Fincher, girando infine la sceneggiatura a cui suo padre aveva lavorato per anni, fosse davvero interessato ad avallare una tesi piuttosto che un’altra, e non invece a perlustrare le intermittenze (edipiche) del cuore. Citizen Kane, ‘il più bel film della storia del cinema’, pensato e girato in anni in cui nel mondo si verificavano le atrocità più irraccontabili, è anche e soprattutto questo, la storia di un avvicinamento alla morte, il lato spirituale e insieme tristissimo di questo viaggio che tutti ci accomuna e che i Fincher, padre-figlio, ripetono con Mank.

Rosebud era di Mank, mio il trucco dei molti punti di vista”: questa risposta di Welles a Bogdanovich basta e avanza (ha ragione Naked nell’articolo che apre questo numero: “L’alieno era Orson Welles”). Ma Welles, due o tre paragrafi prima, dice anche: “E nessuno era più amareggiato, più deluso e più divertente di Mank… un perfetto monumento all’autodistruzione”. Esattamente come ritratto nel film di Fincher: fine del chiacchiericcio social-netflix.

Piuttosto, in Mank Fincher fa di più. Il viaggio al termine della notte, colmo al tempo stesso di grazia e malinconia, diventa la materia stessa con cui si fa il film. Il contrasto tra presente (in cui si gira) e memoria (che è il tempio glorioso dell’inesattezza) viene scandagliato alterando la nozione stessa di tempo. Gli attori devono recitare ‘velocemente’, senza effetti di immersione (quella che Fincher definisce in un’intervista una recitazione pre-Marlon Brando), devono ‘parlare’ con la cadenza dei film di quel periodo, devono solo “dire la battuta” (e non con l’orrida intonazione odierna dove ogni frase sembra una domanda). Il sonoro inoltre non deve avere l’inquinamento atmosferico di oggi né al contrario risultare troppo pulito, anzi deve ‘suonare’ come negli anni quaranta, con microfoni che diano quel sottofondo sordo, uno sfrigolio e un calore, insomma deve “suonare analogico”. Così pure la qualità dell’immagine, giri ad alta definizione e poi degradi e ammorbidisci fino all’impossibile, fino quasi a perdere risoluzione (magari aggiungendo graffi e effetti cigarette burns). Di nuovo secondo un procedimento limpidamente proustiano, la verità di ciò che fu - o brevi splendori di essa - passa per l’esperienza dell’oblio, e quando è finalmente certo quello che si vuole scrivere, è già scritto, o riscritto da un altro.

 

 

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