Meet me tonight
The boys kick the ball up into the wind and the wind hurriedly writes a love note upon it: Meet me tonight.
(William Carlos Williams, The Great American Novel)
Non si è soliti su questa rivista raccontare trame ma What Do We See When We Look at the Sky? di Alexandre Koberidze - anomalo fantastico romanzo per immagini che, molto probabilmente, è e resterà il film più bello dell’anno - merita l’ulteriore affabulazione, il ritorno a casa della parola, uno dei possibili luoghi segreti dove parola e immagine si incontrano senza dover sottostare alla tecnica industriale di nome sceneggiatura.
Giorgi e Lisa, ancor prima che il film cominci, sono degli amanti futuri, prima ancora di incontrarsi aspirano ad amarsi. Si incontrano subito, o meglio si incontrano i loro piedi e le loro mani mentre si piegano a raccogliere un libro davanti a una scuola da dove sono appena usciti alunni e alunne. L’attesa scintilla è accesa, si danno appuntamento in un bar il giorno dopo. Poi però la sera, in un incrocio dove confluiscono strani venti e strane correnti d’aria calda, vengono intrappolati in una maledizione, condannati a rimanere anonimi l’uno per l’altra. Lisa attraversa di notte questo incrocio magico - ma che appare del tutto logico, naturale - dove “vivono quattro amici” che, sebbene non gli sia permesso di parlare con gli umani, decidono di fare un’eccezione e aiutarla: una piantina, una telecamera di sorveglianza, una grondaia e il vento le predicono il destino imminente ma Lisa, per colpa di una macchina che passa in quel momento, non riesce a sentire l’ultimo dei quattro, il vento, che le sta per rivelare la fine della storia. Così la mattina dopo Giorgi e Lisa si svegliano con l’aspetto di persone completamente diverse e immemori delle attività che svolgevano prima di incontrarsi e che ora non sanno più praticare (Giorgi era un calciatore e Lisa una farmacista). A questo punto il film, mentre guarda continuamente verso il cielo, si riversa in tutte le direzioni. Girando inconsapevoli l’uno intorno all’altra, tornano tutti i giorni al caffè dove si erano accordati per incontrarsi. I nuovi Giorgi e Lisa - mai riconosciuti, mai riuniti - procedono nelle loro vite mentre il mondo va avanti senza i loro vecchi corpi. Nella città di Kutaisi tutti seguono una Coppa del Mondo di calcio di finzione (con partite mai avvenute), uomini donne e cani (i cani non ne perdono una). Una voce fuori campo onnisciente e ironica ci porta a bordo campo e aggiunge brevi accigliati commenti alle deviazioni e voli di fantasia e orbite sfasate del mondo. Le immagini si legano e si sfilacciano con lo stesso ritmo della storia d’amore che raccontano, come Giorgi e Lisa passano intere giornate insieme perfettamente combacianti eppure aspettandosi e non riconoscendosi. Ma non c’è da preoccuparsi, sarà il cinema stesso, grazie a due registi che vengono a filmare nel bar che era nel loro destino, a sconfiggere la maledizione.
Cos’è questo film? Una partita di calcio svolta come una danza e come un racconto filosofico, una malìa, dimenticare e riconoscersi, guardare come se si fosse proceduto a una sorta di auto-ipnosi (anche il cane che va a vedere le partite sempre allo stesso bar si autoipnotizza): la vecchia città di Kutaisi, non è ferma nel tempo ma distesa oltre il tempo, una nuova Brigadoon che emerge dalle meraviglie di uno spazio concreto e curvo insieme dove tutti risplendono come in una grandiosa anomalia. Vecchie canzoni italiane, estati magiche (Nannini-Bennato 1990) ricantate per intero mentre vediamo dei giovani in slow motion che giocano a pallone dilatando e spezzando a dismisura la narrazione. Racconto di fate, fantasy anche politico, la cui politica è invitarci a guardare in maniera differente e cogliere la logica aritmica di ciò che ci circonda, le alternative alla realtà presenti nella realtà, e forse in questo modo provare a innalzarsi verso una dimensione spirituale che individua chi è esente dal ritmo ‘normale’ della vita e senza saperlo si muove su un ritmo differente (un cane, una coppia di giovani innamorati e in cerca del perduto amore).
Dunque c’è un ritmo interno che è dato dalla scrittura, dallo scrivere stesso che poi trasvola sul set. E il set mantiene la scrittura su un piano di purezza che già considera la realtà dentro la realtà, la realtà interiore, la realtà laterale, magari mettendo insieme una cosa fatta dall’attore perché così era scritta e una cosa fatta dall’attore non scritta, tenendo anche nell’immagine, senza troppo rivelarlo, una cosa accaduta fuori set (o che hai visto e su cui hai preso appunti quando con il tuo direttore della fotografia ti sei trasferito nella città dove girerai un anno prima di cominciare). Un unico firmamento leggero e cosmico. Anche il caos della vita è fatto di pause se ci si ferma a riflettere o se una musica classica minimale vi si oppone e lo contraddice per esaltarlo. Koberidze cerca continuamente l’elemento poetico nella contraddizione, ma questa ricerca avviene ‘per allungo’, si pensa di essere in un sistema narrativo tanto favoloso quanto pignolo e invece alla prima deviazione si resta lì sospesi, spalmati in una realtà che non ha nulla di programmatico, è solo piacere e desiderio di non-essere (più quel film) e immaginarsi (immaginarne) un altro.
Forse qualcosa che già contiene tutto questo incontenibile esiste: il calcio. “Football is my biggest love and my passion” dichiara in un’intervista Koberidze1. Nel calcio l’anomalia è la regola. Più regole contempla più si crea una mitologia interna di irregolarità bellissime, contemplazioni mirabolanti e gloriose di un destino insondabile, tragedie e gioie irraccontabili che irrompono nel gioco trafiggendolo. C’è molto spazio per il cinema in un film così. C’è molto bisogno di film così, fatti per fare spazio al cinema.
1 It Happened One Night: Alexandre Koberidze on What Do We See When We Look at the Sky? (by Jordan Cronk), “Cinemascope” n. 87.