Fly on the Wall
In questo numero ci si domanda se nel ritorno, in ogni ritorno, stanno scritti il suo inizio e la sua fine. Cosa succede quando il punto massimo della creazione più libera coincide col racconto della sua fine. Quale posizione viene occupata da chi, incarnando entrambe, si accorge che sono il culmine della fine di un’epoca. Come reagisce a questo peso troppo grande. Che movimenti compie. Cosa dimentica e cosa trattiene per sopravvivere.
“Sono tornato là / dove non ero mai stato”. Un falso ritorno innanzitutto, questo è The Beatles: Get Back di Peter Jackson. Tornare ai Beatles, al loro scioglimento, ad Abbey Road e alle beghe, al 1969. Un ritorno materico, non ricostruito né immaginato, scomposto in cinquantasei ore di immagini e centocinquanta di audio registrate nel mese di gennaio che culminano con l’ultimo live della band sul tetto del loro studio. Dalle ore filmate, il regista Michael Linsday-Hogg monta all’epoca il piccolo documentario Let It Be; dai nastri uscirà un disco, Let It Be, il più controverso e il meno amato dalla band, da considerare almeno in due versioni, quella con gli arrangiamenti di Phil Spector uscita nel 1970, con i Beatles già sciolti, e quella pubblicata da Paul nel 2003, con l’accordo dei superstiti (e di Yoko Ono) accompagnato da un extra, Fly on the Wall, composto con frammenti di dialoghi e confronti durante le registrazioni che sono l’ossatura delle otto ore montate da Peter Jackson. Let It Be…Naked contiene già il desiderio di Get Back, il bisogno di McCartney di tornare su un album segnato dalle sue composizioni quanto dagli arrangiamenti di Spector voluti dagli altri membri e la necessità di spogliare quel momento da tutte le falsità, ipotesi, rancori e supposizioni che si ammantano da cinquant’anni sull’ultimo periodo dei Beatles. Fly on the Wall dichiara un pensiero filmico, pensa uno stile, rimanda a quei materiali che finiranno anni dopo nelle mani di Peter Jackson.
Peter Jackson si accosta al mito con cura e attenzione sacerdotale, tratta i materiali come reliquie, il suo approccio è un dichiarato fly on the wall o forse una mosca felice che sfrega le sue zampette sulla marmellata. Ma Jackson ha una missione, trasformare quella materia meravigliosa in cinema, fare quello che a Linsday-Hogg non era riuscito, tanto per il suo narcisismo quanto per fattori e condizioni legati al momento dei Beatles. Da grande cineasta e maestro della messa in scena, sa che solo attraverso il falso quella materia può prendere una forma. Si affida allora a un intenso e attento lavoro di taglio e cucito tra suono e suono, immagine e immagine ricostruendo un mondo, una parabola, tessendo una fitta narrazione (e la primissima versione era di diciotto ore). La cosa è dichiarata prima dell’inizio del film, sotto stile apparente del “documentario d’osservazione” si svolge sotto i nostri occhi un’operazione che guarda all’opera di Frederick Wiseman, il maestro della “reality fiction”, il romanziere travestito da documentarista.
E forse proprio di romanzo si tratta. Immaginate una band, anzi la band rock più grande, che mentre vede tutto crollare, si interroga su questa grandezza, sulla nascita stessa delle proprie intuizioni, sul procedimento e sul segreto che l’hanno resa eterna e infine sul crollo stesso. E mentre le cose, giorno dopo giorno, peggiorano, continua a infilare capolavori, e la cosa, proprio questa magia che si ripete, non essendo spiegabile diventa insopportabile. Insopportabile al punto da provocare una sorta di autoaccecamento, non solo lo scontro e poi lo scioglimento, ma tutto di quei forsennati ventidue giorni tra un teatro di posa monumentale e solo poi un più consono studio sotterraneo - compresi, anzi soprattutto i momenti di divertimento di eccitazione di ricerca e di pura combustione musicale - spariscono, cadono nell’oblio, vengono inconsciamente dimenticati. Eppure, ricorda Jackson, non stiamo parlando del triste maggio 1970 quando tutto finì davvero, ma del gennaio 1969. Tutti, Beatles per primi, non parlano più di quei ventidue giorni di musica assoluta. Praticamente uno dei più grandi e vertiginosi romanzi psicanalitici di sempre. Racconta Peter Jackson che con un montaggio di sei ore e qualcosa (che poi diventerà di quasi otto nella versione attuale), si decide a contattare Paul e Ringo (e gli altri eredi), gli vuole dire che il materiale è eccezionale, che l’aria complessiva è molto divertente, che c’è un apice creativo che offusca qualunque scazzo o pettegolezzo e la fine della band stessa. E, semplicemente, li trova sconvolti, increduli: non ricordano, chiedono, ma è davvero così? E poi vedono il materiale, si rivedono.
Il lavoro “sporco” di Jackson si concentra e si svela soprattutto nella prima parte del film, ha il suo apice nella scena incredibile del dialogo tra John e Paul, un confronto secco, lucido, a suo modo definitivo, rubato da microfoni piazzati in vasi di piante finte. In quella scena vuota, la mensa di uno studio cinematografico che potrebbe essere ovunque, immagine volutamente sfocata, riempita dai sottotitoli a un audio sporco, distorto, c’è un momento cruciale della band che ha rivoluzionato il mondo e segnato un’era. È il momento più posticcio del film ma ne è anche una sorta di sineddoche, nonché il punto che chiude la prima parte, quella negli studi Twickenham, dove i Beatles si ritrovano per creare nuove canzoni e uno show dal vivo e in diretta tv. In realtà, diciamo ‘posticcio’ perché fa quasi paura il numero di verità che emergono fino a quel punto, letteralmente lancinanti. Let It Be (per dirne una) accennata da Paul al piano per la prima volta una mattina presto come tante; il ritorno di John e Paul alle canzoni dell’adolescenza, decine e decine mai messe in musica; dall’altra parte la scoperta quasi adolescenziale di George di saperne fare anche lui, anzi di averne pronte a centinaia, l’entusiasmo con cui le propone e l’intensità con cui gli altri le accolgono (il primo mostrare interesse: Paul…); il momento in cui Paul e Ringo suonano a quattro mani il piano e Paul alla fine, senza alcuna ironia, con un gesto delle mani dice signore e signori ecco a voi Ringo Starr; la dipartita momentanea di George, molto più complessa della semplice famosa battuta “lascio la band”, e che invece viene proprio per una questione di posizionamento della propria luce all’interno del rilancio folle ispiratissimo dei due fari Paul e John che lo costringono una mattina intera a seguirli metaforicamente mentre corrono come matti dentro la loro cameretta di ragazzi e recuperano fogli sparsi nel tempo; o ancora la seduta dopo l’addio di George con Paul disperato, forse il più scosso…
Le quattro favolose creature del cielo sono cannibalizzate dal mondo che hanno illuminato, a cui hanno cambiato ritmo, innescando i desideri di una gioventù nata tra le macerie della guerra. Dal mediocre Linsday, che vorrebbe trasportarli ora in scenari esotici ora in avveniristici studi televisivi, alla ricerca del suo show personale, megalomane e mediocre, alle bugie quotidiane dei tabloid, pieni di leggende, sentito dire, fino alle esigenze del mercato e dei colossi della musica: tutti vogliono qualcosa dai Beatles. È la coda della cometa, la fine di un’epopea, di un miracolo estetico, di un fenomeno sociale, tutto per la prima volta in contemporanea su scala mondiale. I quattro giovani che si incontrano dopo tempo sono reduci da quest’avventura, hanno perso la loro guida, Brian Epstein, sono stanchi di essere Beatles. La vita che si raccontano è fatta di serate passate a guardare la tv, niente a che vedere con l’immaginario di rockstar perse tra party pieni di sesso e droga. Sono spaesati negli enormi spazi squallidi degli studi di posa, non hanno bisogno di scenografie, pubblico, spettacolo. Per ritrovare l’alchimia devono rifugiarsi in un angusto scantinato, basta uno studio attrezzato per l’occasione ma che sia fuori dal mondo e fuori dal tempo. Dal momento che i quattro entrano nello scantinato di Abbey Road iniziano ad essere The Beatles (facciamo i Beatles dice John), hanno bisogno della loro dimensione per ritrovare la loro alchimia, il loro ritmo, il loro tempo. Suonano indifferentemente pezzi del passato, riarrangiano canzoni scritte a quattordici anni, altre diventeranno canzoni dei percorsi solisti (Jealous Guy era Road to Marrakesh), passato, presente e futuro sono nello stesso istante: è il tempo dei Beatles. Qui il film diventa più diretto, sono immagini di una cosa da un altro mondo, con un tempo proprio, i Beatles come tutti i geni non possono fare altro che se stessi, al massimo possono affacciarsi sul mondo dal tetto della Apple, altrimenti la magia si perde. Il lavoro di Jackson nelle parti girate ad Abbey Road è molto più semplice, sono molte meno le immagini e gli audio rubati, i Beatles sanno di essere filmati e fanno i Beatles. A lui non resta che godere nel montaggio di immagini e suoni meravigliosi, naufragando dolcemente nel godimento assoluto di condividere il proprio piacere e narrare ancora una volta il mito.
Get Back è un altro film degli ultimi due anni che guarda alla fine degli anni ’60, da Once Upon a Time in Hollywood di Tarantino a Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson, ad Apollo 10 e ½ di Linklater, volendo scegliere un simbolo la passeggiata lunare è il trionfo e il tonfo di una intera civiltà. La fine dei Beatles, che sono un apice non solo del dopoguerra fa parte di questo inizio di decadenza cantato appunto da diversi autori negli ultimi tempi. Jackson non ha bisogno di ricostruire quel periodo, ha tra le mani un segno tangibile di un momento opposto al nostro presente, il metodo e la creatività dei Beatles sono quanto di più distante ci sia dall’ordine tecnocratico e dalla pulizia digitale. La creazione scaturisce dal caos e dalla fantasia, per questo è necessario registrare sempre, registrare tutto (e avere sempre qualcuno lì a trascrivere le parole che, nate dalla pura combustione dell’invenzione musicale, andrebbero altrimenti perdute). Jackson appunto non spiega perché i Beatles si sciolgono, le immagini ci dicono che non è stata la presenza di Yoko Ono, il bisogno di esprimersi di George, la voglia di John di confrontarsi con il mondo del rock che si scontra con la chiusura di Paul… I Beatles si sono sciolti per un cambio di temperatura, perché nel 1970 non c’era più aria per quelle creature, la cometa era passata, l’epifania della gioia della creazione, quell’orgia in cui Dioniso e Apollo danzavano insieme, era finita.