Banche dati
Il primo romanzo di Michael Mann non è per nulla collateral. Ci si appassiona alla trama, giocata fra inabissamento nel passato e salto nel futuro, ma quello che rende davvero avvincente Heat 2 è la sua natura di puro laboratorio, il modo in cui svela il metodo di Mann (e la sua epica: con il cineasta di Chicago vanno sempre di pari passo). Organizzato secondo volute concentriche che ne fanno tecnicamente il prequel e il sequel del monumento-film Heat, sembra più l’invito a entrare nella fucina di un autore. Anche la struttura martellante che mescola ricordo romanticismo e loro analitico precipitato che attraversa tutti i film di Mann si mostra nel romanzo con la chiarezza del reperto.
Due cose che Mann ha di recente spiegato in varie interviste vanno prese molto sul serio e illuminano questo processo. Primo: non butta mai niente di quello che scrive. Secondo: non butta mai niente di quello che vede. Esistono dunque due banche dati: quella dei personaggi o della narrazione e quella visiva. Entrambe, esattamente come nei film, si infuocano fluttuano si espandono e allo stesso tempo raggiungono una dimensione dura, metallica, senza transizioni. Vincent Hanna, Neil McCauley, Chris Shiherlis (redivivo): di tutti e tre, già al tempo della sceneggiatura di Heat, Mann scrive a parte pagine che approfondiscono le loro biografie (gli anni prima e dopo la rapina che “trasforma per qualche ora le strade di Los Angeles in quelle di Beirut”), le conserva e da queste riparte per scrivere il romanzo più di venticinque anni dopo (gli appunti vengono consegnati alla scrittrice noir Meg Gardiner, che collabora alla stesura). Chicago, Los Angeles, America latina: ci sono ricordi personali che risalgono la corrente al momento giusto come lampi. Può essere una conversazione avvenuta durante la pratica di Mann di scendere direttamente in strada per osservare di persona luoghi persone e traffici sensibili (pratica in cui è essenziale, ha in molte sedi spiegato Mann, trovare e mantenere la distanza. Così dietro Thief c’è il personaggio di un vero ladro e dietro Heat due poliziotti in carne ed ossa che per di più hanno un ruolo specifico nel film o come consulenti durante le riprese. È di questa distanza, aggiungiamo noi, che è fatta l’immagine). Può essere il colore di un vicolo, l’aria di una città (“L’inquadratura iniziale di Thief è un vicolo che mi affascinava per il modo in cui appariva quando pioveva e... anche quando avevo 14 o 15 anni, ero semplicemente impressionato da queste immagini..1”). Può essere una sparatoria in pieno giorno a cui ha assistito da ragazzo. Le pagine di Heat 2 in cui Hanna, eccitatissimo detective che sente, che annusa il sangue del nemico, cerca di sfuggire al cuore industriale e alle fantastiche precipitazioni architettoniche di Chicago mettendosela alle spalle nella notte, guidando verso fuori, verso le miglia e miglia di distese piatte che la circondano, e una volta giunto abbastanza lontano spegne i fari sperando che non ci siano più confini, che non ci sia più la macchina, che non ci sia più la strada, che non ci sia più Hanna: non sono solo pagine bellissime, ma il risultato di quella che Mann chiama banca dati visiva esaurita rispetto a Chicago che lo conduceva a diciotto anni - ben prima di fare film e prima di trasferirsi a Los Angeles - a trasformarsi in questo segugio notturno in cerca di naufragi. Così nasce l’immagine di Mann? Hai paura di impazzire, le strade di ferro ti sembrano tutte uguali e allora vai “ovunque ci siano delle colline”2.
Forse è questo che negli anni ci ha portato ad ammirare in Mann il modo in cui sempre, seguendo il corso del fiume in piena che più gli è congeniale (personaggi città ricordo destino), al tempo stesso prova a straripare, infila una sequenza, un movimento imprecisabili e forse mai visti, al punto che letteramente non si può capire come siano stati fatti. Perché dietro - ora lo sappiamo - ci sono delle visioni reali, o meglio la capacità di non dimenticare degli squarci di realtà (posti, eventi, luci) che lo hanno segnato e spesso ossessionato, quindi già sottoposti a un processo visionario. Mann è genialmente autobiografico, non racconta fatti della sua vita (e potrebbe) ma filma esattamente il modo in cui lo trafiggevano e il modo in cui il colpo subìto già si trasformava inconsciamente in immagine. I film di Mann riportano dei fatti reali trasformati (e ritrasformati al momento delle riprese) in picchi di immaginazione assurda fluidissima martellante. Il romanzo a sua volta mostra il luogo dove viene attivata la combustione che nell’idea di Mann deve dilatarsi fino a raggiungere le temperature più elevate, essere al tempo stesso una specie di mareggiata selvaggia e un’interconnessione porosa che non si vede (in questo senso Blackhat - la prima copertina di questa rivista quasi otto anni fa - resta il meno compreso e il film cruciale di Mann, quello dove è più chiara questa mistura fra tangibile e intangibile, fra pura intuizione e assoluta vulnerabilità3).
Ancora più affascinante è poi che Mann possa affermare una cosa così: “C’è una libertà nella scrittura di un romanzo che in realtà non si ha quando si fa un film e si scrive una sceneggiatura. […] si può prendere una tangente e un pensiero e un ricordo o un impulso per andare da qualche parte, e poi tornare indietro4”. L’atto dello scrivere dunque incarna la tessitura pura, il movimento interno che nei film viene raggiunto attraverso molte e diverse fasi di lavoro. Perciò è più libero: con la scrittura tutto avviene in un colpo solo (la maggior parte della stesura finale di Heat 2, racconta Mann, è il risultato di un’unica magica seduta fiume di diciotto ore in un hotel di Parigi). Anni di appunti sono un serbatoio senza fine che di volta in volta – nell’ulteriore fiume in piena dello scrittore - accedono a zone oscure o sepolte nella memoria saltando in corsa sulla macchina morale che guida i personaggi. Dal Caan (inestimabile la sua recente scomparsa) di Thief al De Niro di Heat la posizione dell’outsider che vede e interpreta la realtà secondo regole non più esistenti o che per vivere esclude la vita (leggi: l’amore) dal suo orizzonte, è forse per Mann la posizione del cineasta che scrive un romanzo: più libera perché non ha bisogno di confermare o fare appello a quella che è considerata la sua mitologia, ma anzi la mette in dubbio, quasi la esclude affrontandola con strumenti che gli sono meno consoni. Riesce così a ricreare quello che nei film è ottenuto attraverso una collisione continua fra personaggio e suo approccio visionario alla realtà (con l’ulteriore stratificazione, si è visto, delle fonti autobiografiche e di un’idea di montaggio ormai famosa basata sull’incrocio di veri e propri maelstrom provenienti da più direzioni) a un livello che ha a che fare direttamente con l’inconscio: la parola mostra e si muove fra le pieghe forse più ancora dell’immagine.
Per esempio, fare un romanzo in cui parte dei personaggi è già morta. Fare muovere questi fantasmi che, riattivati nella scrittura, continuano a non farsi illusioni, consapevoli in vita della caducità, consapevoli in morte della possibilità.
1 M. Fleming Jr., As His First Novel Hits Shelves, Michael Mann Shares Great Crime Stories, in “Deadline” agosto 2022.
2 Ivi.
3 Y. Meranda, Michael Mann’s Blackhat: Vanishing inyo the air, in “film parlato” n. 1, 2015.