Deep place
Quando David Lynch resisteva con fermezza all’ossessione interpretativa nei confronti dei suoi film, probabilmente profetizzava la sterminata messe di parole e interpretazioni che poi si sono puntualmente verificate (succedeva e succede lo stesso con Cronenberg, e bisognerebbe indagare meglio questa connessione tra un’idea di immagine e identità sempre da decifrare – come è quella dei due cineasti in questione – e la paradossale ‘naturalezza’ con cui provoca un vero e proprio diluvio di parole).
Dunque, come è già stato per la morte di Godard, non è solo per sfiducia nella parola critica (paradosso originario di questa rivista) che si sceglie di non parlare della scomparsa di Lynch, ma all’opposto per fiducia nel silenzio come possibilità di riflessione (che verrà esplicitata oppure no), specialmente se si tratta di figure davvero generazionali. Non scriveremo saggi né litanie su David Lynch, semplicemente lo ripensiamo considerandolo per sempre regola del gioco (come Straub, Iosseliani, Corman o Cissé per citare quattro recenti scomparse monumentali).
Il titolo di questo numero di film parlato (ancora variamente intrecciato attorno all’eterna illusione di nome documentario, soprattutto nelle sue ultime non così tanto tortuose vie che sembrano riportarlo alla fiction assoluta da cui è nato e di cui anzi è il primo generatore), indica con Lost Highways (al plurale) la medesima non-interpretazione che ne dava Lynch (al singolare), e per esattezza il contrario di strade perdute, e cioè che sarebbe proprio il movimento del disorientarsi, del biforcarsi dei sentieri, a costituire il massimo di intensità dello sguardo (per cui Lynch si muove sempre tra mistero e trasformazione).
La prima di questa strade della trasformazione (in copertina) è di nuovo Caught By the Tides di Jia Zhangke, film essenziale, di cui non si parlerà mai abbastanza. Tutto parte dai materiali girati per anni (a cominciare dal 2001, cioè da quando Jia Zhangke è passato al digitale) come dei documentari paralleli alle riprese del film che stava facendo. Caught By the Tides in particolare parte dai girati paralleli a Unknown Pleasure (2002) e Still Life (2006) e li trasforma in una narrazione ‘nuova’, constatandone la naturale adesione a un’idea di tempo e spazio ciclica e insieme frastagliata, dove lo sguardo è tanto politico quanto il senso muta di continuo, sporgente verso un’altra dimensione già mentre si filma, in qualche modo profezia delle future possibilità e trasformazioni (esattamente quello che Lynch condensa in un solo film: in effetti è questo l’unico significato di Lost Highway). In questo modo documento e finzione non si limitano a coincidere, ma risuonano a vicenda in un luogo volutamente indefinibile e ancora tutto da esplorare, al tempo stesso correnti fiumi e affluenti, il film passato e il film futuro che ne è stato per così dire tratto, anzi in cui è inevitabilmente contenuto. E i corpi e i volti – come voleva Godard – sono per forza documentario nel documentario, appunto finzione assoluta.
Quando Jia Zhangke rivede queste ore di girati digitali, viene catturato dai segni del tempo sui suoi attori e sul territorio, e allora gira con gli attori oggi quarantenni un nuovo frammento e lo monta insieme alle immagini degli stessi attori ventenni in un continuum fittizio che però documenta le vite e i mutamenti della Cina tutta. La cosa che colpisce è come l’assemblaggio di questo footage (vero e proprio frammento di tempo perduto) con il nuovo girato, valichi non solo le frontiere spazio-temporali ma anche quelle tecniche (affascinantissimo l’alternarsi di grane e ratio, e di diversi livelli sonori, che si affastellano in una pasta unica) dando vita a una storia che a questo punto narra un mondo tanto sconosciuto quanto assolutamente reale (in qualche modo un vero e proprio romanzo). Jia Zhangke spiega così il processo:
“Caught by the Tides è un progetto molto poco convenzionale. Il processo di riflessione sulla narrazione è iniziato lavorando sulle componenti visive - il vecchio footage - e per questo i primi due terzi del film hanno preso forma direttamente in sala di montaggio. Il modo in cui abbiamo pensato a come restringere il personaggio di Zhao Tao e il suo arco narrativo è avvenuto in gran parte dopo aver esaminato la ricchezza di materiali filmati che avevamo. Dopo aver delineato il personaggio, ho dovuto prendere una decisione su ciò che sarebbe stato mantenuto per servire la narrazione. Su questa base, abbiamo finito i primi due terzi del film. Nell’ultimo terzo siamo tornati al modo tradizionale di scrivere una sceneggiatura per adattarla a un arco narrativo. Si è trattato quindi di una combinazione di un processo di scrittura convenzionale e non convenzionale” (J. Cronk, “Interview: Jia Zhangke on Caught by The Tides, in “Film Comment” 7 Ottobre 2024).
Strano percorso, non così lontano dal lavoro che Valeria Sarmiento negli ultimi anni sta portando avanti sulla doppia strada perduta che ha sempre attraversato i film di Raúl Ruiz, e cioè il legame quasi metafisico tra l’essere incompiuto e l’essere postumo. El Realismo socialista, dopo La Telenovela errante e El Tango del viudo, è incompiuto come incompiuta è rimasta la rivoluzione di Allende (cioè forse non poteva essere altrimenti per un film fatto proprio durante una trasformazione profonda che già presagiva – o almeno Ruiz lo presagiva – il disastro e il fallimento); ed è postumo perché già in qualche modo profeticamente auto-critico, ossia troppo lucido per il suo tempo per immaginarsi finito e non destinato invece a riapparire nel futuro come una stella cometa con tutta la sua straziante trasparenza.
Valeria Sarmiento, Jia Zhangke (e poi anche Serra, Ujică e Kitano, di cui si parla in questo numero) fanno la stessa cosa che faceva David Lynch. Prendono una zona profonda (l’inconscio di immagini perdute nel tempo) e la rendono reale, ma in modo che l’importante sia sempre quel deep place (come lo chiamava Lynch) originario, per cui quello che rivediamo – delle immagini girate molti anni prima per esempio – è molto diverso dalla memoria che ne abbiamo (vedi anche Edgar Reitz), e questo perché ciò che chiamiamo realtà ha un raggio d’azione insieme illusorio e troppo ampio, realtà vuol dire diversi tipi di realtà, le cose non sono successe così, sono appunto come le ricordiamo. Diverse? In trasformazione, più vere del vero (si diceva una volta), che forse è ancora l’unico modo per non dimenticare.