Corpo spazio distanza parola assenza
Eccola, mia madre, al centro della vasta cattedrale che era l’infanzia: era là dall’inizio. (Virginia Woolf)
No Home Movie, l’ultimo film di Chantal Akerman, si potrebbe leggere come la cronaca intima di una sparizione progressiva, come il desiderio di una figlia/cineasta di portare la propria madre - corpo/sguardo/parole/gesti e, soprattutto, insostenibile memoria - fisicamente dentro le proprie immagini, come estremo tentativo di trattenere chi era là dall'inizio e chi dei suoi film era sempre stata il centro e la matrice originaria.
Nel 1975, Jeanne Dielman, folgorante film-manifesto, aveva sovvertito un certo ordine simbolico per farne emergere un altro attraverso un uso impensato, mai visto prima al cinema, di un tempo narrativo che fluiva in un unico divenire con il tempo reale, operando così una rottura epistemologica tale da sconvolgere ancora oggi per la sua radicalità e, nello stesso tempo, rendendo testimonianza viva e reale con quelle immagini del ribaltamento teorico e politico messo allora in atto dal movimento delle donne.
Dietro la figura di Jeanne Dielman/Delphine Seyrig, immersa nei colori post-hitchcockiani di una messa-in scena della realtà, maniacale fino al dettaglio, c’era ancora una volta la madre reale di Chantal, Nathalia, detta Nelly, insieme a tutte le donne della sua generazione, cui il film era idealmente dedicato. Anche la prima inquadratura da lei girata in assoluto, come raccontava, nel corso di una conversazione, a Jean-Luc Godard, Chantal l’aveva destinata a sua madre, filmandola mentre ritirava la posta dalla cassetta delle lettere all’interno di un grande edificio.
Corpo/spazio/distanza/parola/assenza, queste fin dall’inizio, sarebbero state le categorie essenziali del suo modo di filmare, tutte magistralmente in atto in News From Home, film dall’architettura irregolare e discontinua, attraversato dall’idea stessa della diaspora, della distanza e dell’esilio, ritmato dalla lettura spaesante delle lettere spedite dalla madre da Bruxelles e scandite dalla voce off di Chantal stessa, mentre intanto scorrono le immagini di strade, di incroci qualsiasi di New York, ripresi in camera-car o di interni di stazioni della metropolitana filmati in astratte, prolungate inquadrature fisse, che sembrano lasciarsi assorbire dall’indefinitezza di una solitudine inesprimibile e incolmabile.
Era stato Paul Klee a sottolineare che in pittura si tratta di spazializzare la percezione e rendere simultaneo il tempo ed è attraverso questa osservazione che si può comprendere meglio il lavoro di minuziosa precisione compiuto da Akerman sull’inquadratura, il suo rigore nello scartare le immagini-clichè, la fiducia nell’affrontare la densità della durata, la presenza del vuoto, senza mai opporvisi, ma lasciando, al contrario, che entrasse liberamente dentro le sue immagini.
Forse, da questo punto di vista, Chantal Akerman è stata l’interprete più estrema in assoluto del metodo godardiano del “tra” le immagini, vista la sua ostinazione radicalmente politica nel mostrare proprio quelle immagini che il cinema commerciale avrebbe soppresso, scegliendo sempre di inquadrare quella che aveva definito la piccola cosa accanto, cioè quelle immagini situate nel punto più basso della gerarchia, operando così una ricomposizione formale secondo un altro ordine di discorso, che potesse arrivare a mostrare i rapporti di classe all’interno dell’immagine.
In un passaggio delle sue note a D’Est, pietra angolare nella sua filmografia non fosse che per la vertigine spazio-temporale prodotta dalla cadenza e dalla ripetizione nell’uso dei travelling, Akerman scriveva:
“…E la scena primaria per me - benchè mi difenda e finisca poi per arrabbiarmi -, devo arrendermi all’evidenza, sono, molto indietro o sempre davanti, vecchie immagini appena ricoperte da altre più luminose o perfino radiose. Vecchie immagini di evacuazione, di camminate nella neve con dei pacchi verso un luogo sconosciuto, di volti e corpi messi lì uno vicino all’altro, di volti che tentennano tra la vita forte e la possibilità di una morte che li colpirebbe senza che abbiano chiesto niente. Ed è sempre così.”
Queste note sono illuminanti per comprendere che cosa ha comportato per Chantal Akerman essere la figlia di una sopravvissuta ai campi di sterminio e quale influenza ha determinato sul suo modo di filmare, stretto fin dall’inizio tra interdetto e trasgressione, mentre sui modi con cui si è potuto trasmettere il passaggio di questa esperienza-limite da una generazione all’altra, in particolare, da madre a figlia, ogni suo singolo film ha provato a rispondere.
Se già altrove, ad esempio, in Les Rendez-vous d’Anna, Aujourd’hui, dis-moi, Golden Eighties, Toute une nuit, ecc, si erano già potuti incontrare i frammenti sparsi della storia di vita di sua nonna e di sua madre - oltre alla sua presenza reale -, in No Home Movie Chantal Akerman va oltre, sperimentando l’immediatezza di un corpo a corpo diretto con Nathalia, entrambe inscritte dentro la stessa inquadratura, in questo cinema fatto letteralmente in casa, che tuttavia non potrebbe sfuggire di più al clichè di un filmino familiare.
No Home Movie si apre infatti con l’inquadratura prolungata e drammatica di un albero squassato dal vento, che possiede in sé la stessa forza di un frammento biblico, grazie all’irruzione brutale di un sonoro, che rovescia la realtà fisica nella metafora di una violenta esperienza interiore. Questo registro potente del sentire e questa sconfinata profondità dell’immagine dietro cui se ne nascondono altre, ha molto a che vedere con l’inconscio, con la memoria, con il continuo divenire dell’identità femminile, con un’identità ebraica in permanente conflitto con se stessa, con il senso del tempo e una declinazione infinita di tempi plurali, stratificati e diversi, attivati nel cinema, ed è forse il tratto distintivo e più immediatamente riconoscibile del modo di filmare di Chantal Akerman.
Ritratto e autoritratto, come in un ologramma, si sovrappongono continuamente in No Home Movie, così come vicinanza e lontananza tra madre e figlia, intese anche come movimenti interni, sfumano e sconfinano nelle loro conversazioni filmate su Skype, mentre si radicano nuovamente quando si ritrovano ancora insieme, sedute al tavolo di cucina nella casa di Bruxelles, nei loro discorsi, sulla famiglia, sulle preghiere recitate in ebraico ashkenazita, la guerra, la deportazione, il cibo, i ricordi dell’infanzia di Chantal, come se il senso di questo film libero e sempre sfuggente si lasciasse assorbire da una quotidianità meno conflittuale e molto più preziosa, perchè fragile e minacciata da una fine imminente.
Le lunghe sequenze in camera-car girate in Israele che determinano nel tessuto del film uno scarto secco, quasi come un corpo estraneo, entrano tuttavia in una relazione diretta con le stanze ordinate della casa di Bruxelles, rappresentandone autenticamente il rovescio, la parte forse meno accessibile, ma più evidente ed essenziale. Quella terra tragica, brulla, con gli alberi e i prati battuti dal vento, mostra la realtà di un processo irreversibile di deterritorializzazione, sono quelle immagini che raccontano da altrove il lento franare di un mondo, dove senza la madre non esiste più nessuna casa, no home, e dove forse non resta nemmeno più la realtà fragile dell’immagine, unica vera patria di tutti i cineasti apolidi, come anche Chantal Akerman è stata.