"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Entrare nella notte e trovarsi al centro di un istante. In Now di Chantal Akerman è il QUI assoluto che ci sconvolge, è il qui e ora che ci afferra e ci porta più in là, nello spazio buio dove la velocità della visione (o delle visioni) ci trattiene. Cinque schermi sospesi in aria al centro di una stanza che riprendono fughe, linee perse all’orizzonte, dileguamenti visivi che non segnano un percorso ma impongono dispersioni. Sembra quasi un contraddirsi, ma la Akerman ci spinge in avanti senza indicazioni per portarci oltre il bordo, alla deriva o più in là, nel falsotracciato , nell’altro verso del cinema.
Si scosta la tenda come una palpebra pensando che solo lo sguardo possa aprire una visione (la visione che è palpazione con lo sguardo, direbbe Merleau-Ponty e questo basterebbe a toccarla), ma la trama allarga i propri confini ed è allora che tutto il corpo si muove, nello spazio. Non si tratta di contemplare lo schermo (anzi, gli schermi) per una visione passiva, ma di penetrarlo, quasi sfiorarlo nella fuga di orizzonti imprimendo una certa pressione nell’aria che sembra mancare di staticità e si sposta con noi nel vuoto; farci mobili nella mobilità delle immagini, costringerci a transitare più in là ancora, da uno schermo all’altro, di soglia in soglia e trovarci nell’intermezzo, in quel tra che è un viatico, medium oscuro, nell’insorgenza delle immagini. Sembra quasi che il cinema, questo luogo privilegiato di scontro frontale sguardo-visione, non basti più a sorreggere tutto l’impianto stratificato di un’immagine - edificazione di uno sguardo - ma, in Now, essa ci investe interamente tanto da pensarla fuori da un unico quadro, dal campo del quadro per ritrovarcela ovunque intorno a noi, investiti anche dal fantasma del suono, perché è nel passaggio da uno schermo all’altro delle immagini che la visione prende forma, è in quello spazio vuoto che noi diventiamo ombre buie, vaganti e perse con gli occhi infranti, incapaci di posare l’occhio su quell’attimo frugale che è l’epifania di una visione. L’adesso (Now) non c’è mai perché è già passato, l’immagine passa, scorre ed è già fuori perché lo schermo non è abbastanza, ci vogliono più schermi, il luogo stesso del cinema è anche, ora, fuori dal cinema stesso; non c’è approdo per l’immagine perché non c’è casa, non esiste il luogo che ora diventa punto cieco, ma c’è l’urgenza di scavalcare la distanza che ci separa da questo flusso ininterrotto, migrazione continua lungo orizzonti indefiniti. E la messa in scena diventa messa a punto di supporti sempre nuovi, di terze dimensioni (pensiamo a Godard, Scorsese o all’ultimo Zemeckis) e, ritornando alla Akerman, di nuovi territori (deserti) espressivi che vorrebbero inabissarci nell’interstizio informe della materia che manca continuamente al nostro sguardo: l’eterna incompiutezza di una veduta. Quello che la Akerman sembra chiedersi mentre fugge via con lo sguardo lungo paesaggi completamente vuoti, assenti, è cosa sia il cinema se tutto oggi è cinema, se non sia necessario invece destrutturarlo una volta per tutte e ritornare a cercarlo.