"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

FESTIVAL/Berlinale 2017 – Eight Hours Don’t Make a Day (Rainer W. Fassbinder)

Thursday, 30 March 2017 08:03

Mariangela Sansone

La sovversione del desiderio

 

Lo sguardo, immerso nella notte di Colonia, si muove tra la serpentina delle strade cittadine, mentre la vita lentamente scivola nella sua quotidianità. Il passaggio dal buio alla luce, ad una nuova alba, introduce ad una visione più sincera ed ottimistica, soprattutto rispetto all’opera precedente del regista, Selvaggina di passo (Wildwechsel, 1972).

Otto ore non fanno un giorno (Acht Stunden sind kein Tag) è una serie televisiva realizzata da Rainer Werner Fassbinder per la WDR, Der Westdeutsche Rundfunk, nel 1972, restaurata e presentata nel corso dell’ultima Berlinale. Il progetto iniziale prevedeva otto episodi, ognuno della lunghezza di due ore circa, ridotti poi a cinque perché Günther Rohrbach, in quegli anni a capo della sezione produttiva della WDR, reputò le ultime tre puntate “prive di drammatizzazione1.

film parlatoDai fluidi notturni, cupi e crepuscolari traspare, in questa opera fassbinderiana, una visione luminosa della vita e dell’umanità; il regista si allontana, momentaneamente, dalla crudeltà e dalla ferocia dell’essere umano per aprirsi a spiragli luminescenti in cui a risplendere è la possibilità di cambiamento. Momenti ironici, tipici della leggerezza di un serial televisivo, si innestano sul racconto di piccoli intrecci sociali, accompagnando le asprezze e le gioie della quotidianità.

Ambientata nel mondo operaio, la serie è stata girata in un momento di grande cambiamento, i primi anni settanta, che videro la nascita della banda Baader-Meinhof, successivamente Rote Armee Fraktion (RAF), che proprio a Colonia, dove è ambientato Acht Stunden sind kein Tag, si rese protagonista, alcuni anni più tardi, nel 1977, del rapimento e dell’omicidio di Hanns-Martin Schleyer, prima membro del partito nazista, poi passato alla CDU. Nello stesso periodo, in Italia, erano in pieno fermento le istanze di profonde revisioni dei consolidati assetti familiari e lavorativi: nel 1975, con la riforma del diritto di famiglia, si introdussero importanti innovazioni, come l’eguaglianza tra i coniugi, il passaggio dalla patria potestà alla responsabilità genitoriale condivisa, e l’acquisizione della maggiore età a diciotto anni, scardinando la tradizionale e rigida struttura paternalista; qualche anno prima simili rivolgimenti erano avvenuti nel campo del lavoro, con lo Statuto dei lavoratori, la legge n. 300 del 20 maggio del 1970, “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”, un corpo normativo approvato subito dopo la fine degli anni sessanta, sull’onda dei forti contrasti sociali e delle dure spinte delle lotte sindacali.

La realtà nel mondo occidentale mutava sotto la propulsione di forze inarrestabili, i principi fondamentali dei rapporti umani erano oggetto di una continua ed esasperata lotta nel nome delle libertà personali, rischiando, sovente, di sfociare nella violenza e nei bagni di sangue.

L’alba di Colonia è l’alba di una società in movimento.

Fassbinder, sin dal primo episodio, porta in scena la tensione che si insinua sottilmente nei legami familiari e nelle relazioni lavorative, incrinando antichi e sicuri equilibri sociali.

La prima puntata, intitolata “Jochen e Marion” (Gottfried John e Hanna Schygulla), si apre con la famiglia Kruger intenta a festeggiare il compleanno della nonna; l’atmosfera è spensierata ed allegra, si balla, si parla e si beve, si ricordano i problemi quotidiani. La mdp indugia sui volti dei familiari, fissa le emozioni, gli stati d’animo, catturando le parole, le battute e i malesseri, dipingendo il corpo di un cinema organico. L’improvviso schiaffo ad una bambina è un colpo inaspettato scagliato allo spettatore, che osserva inerte lo svolgersi della scena, chiamandolo a rendersi partecipe dello svolgimento filmico. È un gesto dissacrante e prorompente, metaforico, la reazione ad una risata generata da una battuta sconveniente nei confronti della nonna, avvertito, nel simposio familiare, come uno strumento punitivo eccessivo.

Il rispetto nei confronti dell’anzianità e l’educazione nei confronti dei figli vanno salvaguardate ma vanno pensate modalità meno rigide. “Non ti sembra eccessivo picchiarla? Ha solo riso, lei è anche mia figlia”, dice Monika al marito Herald. Il loro matrimonio è in crisi, i due sono distanti, sia per l’educazione da impartire alla figlia che, più in generale, per le opposte visioni del mondo, duro e rigido lui, difensore degli antichi mores, indipendente ed autonoma lei, degna figlia del suo tempo.

Le vicende della famiglia Kruger scorrono in parallelo con le traversie lavorative dei suoi singoli membri, in particolare quelle di Jochen, operaio meccanico in una fabbrica. Storie d’amore nascono, crescono e muoiono nel corso della serie; Jochen e Marion, incontratisi casualmente nella prima puntata, grazie ad una bottiglia di prosecco, Oma e Gregor, legati dall’amore per i libri - galeotto, in questo caso, è, significativamente, L’amante di Lady Chatterley, di D. H. Lawrence -, e la fine della storia tra Harald e Monika, cui seguono il divorzio e l’incontro di Monika con Manfred. Al contempo, la matassa filmica si concentra sul mondo del lavoro nelle fabbriche, sul rapporto “orizzontale” tra i lavoratori e “in verticale” con i padroni. Alla punizione inferta alla figlia di Monika, per aver riso della nonna, Fassbinder oppone la reazione degli operai rimproverati perché lenti e poco efficienti, pronti a coalizzarsi come fratelli per far sentire le proprie ragioni ai datori di lavoro.

Due famiglie a confronto, vicine e distanti, il sangue e il lavoro, i familiari e i compagni operai, due corpi che crescono e prendono forma episodio dopo episodio. Le storie familiari e sentimentali procedono sullo sfondo di lotte di classe, vertenze sindacali e scioperi.

La relazione tra Jochen e Marion è accolta in maniera diversa e contrastante nei rispettivi ambienti sociali; la ragazza, segretaria in un giornale, mette fine alla relazione precedente, nonostante l’opposizione dell’amica e collega Irmgard, che nutre forti perplessità nei confronti di Jochen, ritenuto inadatto perché semplice operaio, mentre i colleghi del ragazzo accettano di buon grado il nuovo amore, affascinati dal coup de foudre tra i due giovani.

Oma (nonna), e Gregor, nella seconda puntata, si scontrano con la realtà del mercato immobiliare, dominato dalle speculazioni delle agenzie, così occupano una vecchia biblioteca e, supportati dalla stampa e dalle madri del quartiere, riescono a tenere testa alle forze dell’ordine ed a trasformare l’edificio in un asilo e nel loro nido d’amore.

Lo sguardo del regista verso il suo corpo filmico è clemente e consolatorio, abbandona i toni pessimistici delle sue prime opere, si affida a sfumature più tenui, ai toni più rosei del sorgere del nuovo sole. “Lavorare secondo un’estetica della speranza”, nelle parole del regista, è stato possibile anche per il tipo di produzione; un prodotto televisivo ha un pubblico diverso. In un’intervista, Fassbinder così rispondeva a Christian Braad Thomsen: “Tutti i drammi e i film che ho scritto erano indirizzati ad un pubblico intellettuale. Nei confronti di questo si può benissimo essere pessimisti e lasciare che un film si concluda nell’impotenza. Un intellettuale è del tutto libero di lavorare sul problema con tutte le sue capacità intellettuali. Nel caso del pubblico più ampio che può essere raggiunto con un serial TV, sarebbe stato reazionario, perfino criminale, dare un’immagine disperata del mondo. Il tuo primo obbligo è di dare al pubblico forza, dirgli “Hai ancora delle possibilità2.

Una speranza, rincorsa nonostante gli ostacoli, di qualsiasi natura essi siano, sociali, umani e anche morali, che vada oltre, in un luogo ove tutto, in potenza, è realizzabile.

In questa messa in scena seriale fassbinderiana, ogni singolo personaggio tende al raggiungimento di un fine tra mille difficoltà, ma senza mai abbandonarsi alla commiserazione o ad uno sterile scetticismo, il nichilismo è sostituito da un possibilismo volto al miglioramento delle proprie condizioni di vita.

Così i due sessantenni, Oma e Gregor, lottano per la creazione di uno spazio confortevole per loro e per i bambini, ricorrendo all’occupazione di uno stabile pubblico e coalizzando le donne del quartiere.

Ciò vale anche per i rapporti interpersonali. La storia d’amore tra Irmgard e Rolf, nata tra i pregiudizi della donna nei confronti degli operai, dettata da una visione borghese della vita, riesce a superare le barriere sociali e i preconcetti. Tra la quarta e la quinta puntata, intitolata proprio “Irmgard e Rolf” la relazione tra i due assume concretezza, fino alla decisione di una stabile convivenza.

Gli operai si organizzano contro la fabbrica che non vuole pagare gli straordinari e il premio di produzione, e dopo una serie di azioni di disturbo riescono ad ottenere ciò che era stato loro promesso. “Puoi usare il tuo potere, poiché chi ti reprime dipende da te. Cos’è un padrone senza lavoratore? Nulla. Ma si può benissimo immaginare un lavoratore senza un padrone. Per la prima volta ho realizzato qualcosa di positivo, qualcosa pieno di speranza3.

La “speranza” cui fa riferimento il regista va intesa in un’accezione terminologica molto ampia; il riferimento è alla materia trattata e al modo in cui viene messa in scena, è la semplicità del quotidiano, i dialoghi tra i protagonisti e la spinta verso il cambiamento, ove è insita un’energia efficace e costruttiva.

Dopo un lungo periodo di preparazione ed un lavoro minuzioso, fatto di inchieste ed interviste tra gli operai e i sindacati, Fassbinder porta al grande pubblico televisivo un’opera originale, che scruta con grande attenzione nel mondo del lavoro reale, nella Germania a cavallo tra gli anni ’60 e ’70. Il regista non si allontana mai dai suoi personaggi, in un certo modo li protegge, soprattutto quando il linguaggio è più intimo, durante i giochi degli amanti, tratteggiando con delicatezza i rapidi e travolgenti momenti in cui tra piccoli scherzi e timide allusioni nasce la complicità, come capita sovente in un colpo di fulmine.

La mdp si muove tra piani americani, resta vicina al corpo attoriale, quasi sorreggendolo fisicamente, per poi contemplarlo nelle profondità di campo quando il pathos sale materico, le espressioni sui volti dei protagonisti, le emozioni assumono una forma epidermica, diventano materia organica. Negli interni la luce si fa fioca e gli ambienti, carichi di elementi decorativi e di oggetti, sembrano stringersi intorno ai protagonisti, quasi in una ricercata e immaginifica creazione di un luogo interiore. Così gli spazi della fabbrica, ma anche i locali che accolgono le vicende personali, rinchiudono i moti dell’animo in una dimensione personale ed umana. Lo sguardo si fa prossimo, accarezza ogni singolo personaggio, consolandolo nei momenti di smarrimento, tra le lotte operaie e le asfissie del quotidiano. Le superfici non sono mai piatte e bidimensionali ma sempre dotate di spessore e di profondità, anche quando i luoghi sono più angusti, come nell’appartamento di Jochen. Una forzatura del reale che conferisce tridimensionalità e crea degli interspazi in cui lo sguardo è libero dai limiti dell’immagine e va oltre, un oltre che supera i limiti della prigione visiva. Una profondità di veduta che è la profondità umana e i molteplici aspetti della personalità ben rappresentati da tutti i personaggi in scena. Lo spettatore è parte integrante del racconto, vive tra gli spazi filmici, è una figura fantasmatica nel simposio familiare e nei convivi tra i colleghi e gli amici di lavoro. Si avverte il fremito dei sentimenti nel loro nascere, quando ad esempio Jochen per la prima volta incontra Marion, tra l’imbarazzo degli occhi che si scrutano e lo stupore della scoperta, il ragazzo inciampa e lei sorride arrossendo. Il tappeto musicale che scorre in sottofondo, soprattutto nei momenti di tenerezza, come nel corso della cena tra i due, è caratterizzato dalle note vellutate di Joan of Arc, di Leonard Cohen (compagno di viaggio di molto Fassbinder, v. Attenzione alla puttana santa/Warnung vor einer heiligen Nutte, o in Paura della paura/Angst vor der Angst, o ancora Chelsea Hotel #2 nell’ultimo episodio di Berlin Alexanderplatz).

L’amore si lega e si annoda alla sofferenza, l’uno bisognoso dell’altra, come scriveva Robert Desnos, sulle pagine di La révolution surréaliste del 1926: “no, l’amore non è morto in questo cuore e questi occhi e questa bocca che proclamò i suoi avviati funerali. Ascoltate, ne ho abbastanza del pittoresco, dei colori e del fascino. Amo l’amore, la sua tenerezza, la sua crudeltà”.

Pur trattandosi di una produzione televisiva, non mancano i temi cardine della dialettica di Fassbinder. Tutto ruota intorno all’amore, vissuto tragicamente e non avulso da quelle spine carnificate che sono al contempo fonte di dolore e di piacere. “Ogni volta che due persone si incontrano e stabiliscono una relazione si tratta di vedere chi domina l’altro. La gente non ha imparato ad amare. L’uomo è educato in modo tale che ha bisogno d’amore in qualsiasi situazione. Ma non c’è nulla nella sua educazione che impedisca a chi è più forte in amore di sfruttare l’amore del più debole4. Così l’amore non può essere libero dalle fonti di dolore, che sgorgano da meccanismi di possesso, gelosia, dipendenza o dalle diverse condizioni sociali cui appartengono gli oggetti del desiderio.

Le relazioni tra Jochen e Marion, tra Irmgard e Rolf, ed anche il triangolo tra Harald, Monika e Manfred, sono lo specchio di una poetica in perenne bilico tra passione, desiderio e impossibilità di amare. Rapporti narrati nella loro epifania sentimentale, come tra le prime due coppie, o sino alla loro morte, nel caso di Harald e Monika. Fondamentale in Fassbinder il ruolo dei condizionamenti sociali: “I miei personaggi sono meschini perché tali sono le condizioni in cui vivono. Non esiste la gente cattiva per natura. L’uomo in sé è buono […] è la società che lo ha reso cattivo”, dichiarava in un’intervista del 1974. Gli amanti in Acht Stunden sind kein Tag appartengono a mondi sociali diversi, la classe operaia e quella borghese, con problemi relazionali e, spesso, pregiudizi che contaminano la purezza del sentimento, quella “purezza” che a ben vedere Fassbinder ha sempre cercato, da Le lacrime amare di Petra von Kant, passando per Berlin Alexanderplatz, fino a Querelle, solo per citarne alcuni. L’ubbia di Irmgard verso Jochen e la sua classe sociale, viene sovvertita proprio dall’amore verso Rolf, Monika divorzia da Harald per Manfred, un uomo semplice, il miglior amico di Jochen; ci si affida al desiderio per trovare quella forza che dà senso all’esistenza, “il traguardo estremo di ogni umana fatica”, come lo definisce il regista.

Il triangolo amoroso e il desiderio triangolare sono ossessioni di Fassbinder sin dalle opere più strettamente legate al periodo dell’Antiteater e da Il piccolo Caos, il suo secondo cortometraggio. In L’amore è più freddo della morte, Il mercante delle quattro stagioni e Rio das Mortes, il triangolo nasce da una casualità, da un imprevisto, come l’arrivo di una vecchia conoscenza che, inevitabilmente mette in crisi il rapporto di coppia; in Acht Stunden sind kein Tag, Manfred, il terzo elemento, rappresenta non un rivale per Harald, ma una nuova opportunità per Monika, una forza rigenerante, poiché il matrimonio di Harald e Monika è già minato dalle divergenze sull’educazione della figlia, dalla violenza di Harald e dal lavoro di Monika.

Per il regista, come per Deleuze e Guattari, “il desiderio ha una natura sovversiva ed è lo strumento con cui raggiungere un nuovo modo di creare immagini5.

Nell’approccio alla macchina televisiva, in particolare proprio con Acht Stunden sind kein Tag, Fassbinder, consapevole di rivolgersi ad un pubblico popolare, porta in scena una serie di personaggi più consoni alla figura del “buon cittadino”, accantonando il concetto utopistico di “operaio”, per non attingere all’iconografia cui il termine avrebbe fatto riferimento, e si tiene lontano, in questa occasione, dagli echi terminologici di “rivoluzione” e “capitalismo”. Come spiega Davide Ferrario6, nella socialdemocrazia tedesca le due figure dell’operaio e del proletario non coincidono tout court: la struttura di fabbrica è tale da garantire all’operaio un riconoscimento che è invece negato, per esempio, al Gastarbeiter. Questo spiega perché Fassbinder scelga di far leva sulla componente emotiva del pubblico cui si rivolge, motivo per cui le storie sentimentali tra piani sociali diversi qui hanno ragione di esistere. Dopo il quinto episodio, la serie fu interrotta e rimane il rimpianto del discorso interrotto del regista, che aveva in mente di realizzare un progetto ben preciso: “Volevamo dire che i sindacati non hanno più nulla a che vedere con la gente, che se davvero volessero fare qualcosa per la gente dovrebbero tornare ai principi fondamentali. Probabilmente questo è qualcosa che non è permesso dire in modo semplice e diretto7.

A ben vedere Acht Stunden sind kein Tag anticipa le saghe televisive come Heimat di Edgar Reitz, e non rimarrà l’unico progetto televisivo di Fassbinder; il suo lavoro successivo per la WDR, tratto da un romanzo di Daniel Galouye, è Welt am Draht, arrivato in Italia con il titolo Il mondo sul filo, opera narrativamente più contorta e complessa.

Otto ore non fanno un giorno si colloca in un momento in cui la contrapposizione tra Televisione e Cinema era quanto mai vivace, e Fassbinder si è spinto oltre, sovvertendo le regole della macchina televisiva, ampliandone i limiti sino a darle una forma cinematografica. Il regista non considerò mai minore il mezzo televisivo, ma semplicemente uno strumento diverso, in grado di rimodellare il corpo materico del cinema. L’occhio del cineasta concilia la duplicità intrinseca del mezzo televisivo, ridefinendo i limiti tra ciò che è intellettuale e ciò che viene considerato popolare. L’intento del lavoro di Fassbinder, cinematografico e televisivo, era cellulare, passava attraverso i ricettori della pelle e spingeva a fondo, dritto come un fendente: “Io voglio dare allo spettatore emozioni insieme alla possibilità di riflettere e di analizzare ciò che sente”.

 

 

1 Davide Ferrario, Rainer Werner Fassbinder, pag. 47, Editrice Il Castoro, 1993

2 Davide Ferrario, Rainer Werner Fassbinder, pag. 44, Editrice Il Castoro, 1993

3 Ibidem

4 Dichiarazioni tratte da D. Ferrarrio, Fassbinder, Firenze, La nuova Italia, 1984, pp. 6 - 7.

5 Cfr. G. Deleuze e F. Guattari, L’anti-Edipo, cit.

6 Davide Ferrario, Rainer Werner Fassbinder, pag. 46, Editrice Il Castoro, 1993

7 Dichiarazione riportata in Rainer Werner Fassbinder, München, Hanser Verlag, 1979

 

 

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