Alla ricerca del film perduto
Scrivere di un film spesso equivale a cimentarsi sulla stesura di una lettera. Un foglio bianco, una penna, la distanza di spazi e di tempi. Chissà cosa avrà pensato John Torres in moviola mentre guardava per la prima volta quelle venti bobine vecchie di trentasette anni, chissà quale film si è proiettato ai suoi occhi e quale lettera avrebbe voluto scrivere. People Power Bombshell: The Diary of Vietnam Rose in fondo nasce dal caso, o meglio dalla forza di volontà di Liz Alindogan nel conservare sotto il letto quei rulli in attesa che qualcuno li riscoprisse. Poco meno di mezzo secolo fa nelle Filippine era una diva, quasi una dea, ed interpretava le pellicole più celebri del suo paese tra cui questo dramma erotico (e politico) di Celso Advento Castillo, una bomba, un film scomodo travestito da storia a luci rosse ma con un latente spirito di dissenso. Lui, pioniere e messia del nuovo cinema ai tempi di Marcos, è mancato pochi anni fa e non restava solo che, ad un genio incostante dell’ultima folgorante generazione di cineasti filippini come Torres, recuperare la carcassa di quest’opera. Perchè Vietnam Rose oramai non era più solamente un film incompiuto, ma il diario dell’avventura di Liz, la sua giovinezza fuggita e di quella del suo popolo.
La traccia video è più che mai deteriorata, in piena sindrome acetica ed ossidata, spesso composta dalla stessa pellicola rovinata che ha corroso tutto il fotogramma rendendolo percettibile ma non visibile. Pare la rievocazione di un’immagine d’avanguardia che possiede una memoria sempre più materica con l’avanzamento della propria decomposizione, scavi di celluloide riesumata dalla realtà, stratificazione di azioni fagocitate ed erose dal tempo, salvate e fissate un solo attimo prima del loro definitivo deterioramento. La traccia audio originale invece è andata quasi definitivamente perduta e, da ciò, la ricerca dello stesso Torres del cast originale che ora descrive l’esperienza del set, claustrofobica quanto utopica, durante lo scorrere del film, personaggi che a distanza di tutti questi anni commentano fuori campo la finzione della stessa scena che allora interpretavano. Il fascino e la deriva metalinguistica di un film del genere scaturisce da un inafferrabile e continuo ribaltamento dei rapporti in cui la storia diventa la messa in scena del sogno ed in cui la natura di ogni immagine, la sua texture, è epistemologicamente incerta e suscettibile di essere manipolata non più per il bene della finzione, ma per lo scorrere della durata che segna fisicamente il supporto. Una doppia traccia, un doppio ritrovamento ed un doppio film.
C’è un ulteriore dualismo, quello che disegna il destino di una nazione e di un popolo, nell’identità di drammi naturali e storici. Il film si apre, e si chiude, con un tornado misterioso, le anime che lo attraversano vagano su una zattera di allucinazioni attraversando una disumana umidità alla ricerca della sopravvivenza, i volti appena percepiti appaiono scolpiti da un incubo, il dramma collettivo di coloro che per quattro mesi vissero realmente su quell’isola nella speranza di finire il film a tutti i costi, anche in mezzo alla rivolta. Metafore di senso e mareggiata di forze ostili che gli uomini sono invitati ad affrontare, attraversando eventi che non sono mai del tutto decifrabili e che rivivono in uno straziante vortice di memoria e di fantasia che lega il declino e la rivolta contro la dittatura di Marcos con una proto-tipica visione autoctona dell’invasione statunitense in Vietnam (anche se girata nelle Filippine, entrambe terre di conquista). Ma in fondo nulla può essere completato ed il fascino umano dell’incompiuto può solo far germogliare la corrispondenza su un film altro, che confonde luoghi e tempi, offusca il reale e il fittizio, crea un mistero costante nella dissoluzione che vede gli spettri di un cinema e di uno spazio intrappolato all’interno della celluloide in decomposizione, finalmente liberato dal tempo. Il sacrificio di un’opera non sarà mai vano. Solo nel finale appare la macchina da presa senza sapere se questa immagine fosse nel montaggio originale del film o parte di un backstage girato dello stesso Torres, ma poco importa oramai. Come se fosse la goccia di inchiostro, o la lacrima, che chiude una lettera, come se fosse destinata a Lyz o all’amica lontana che si siede di fianco a te al cinema, come se ognuno di noi sotto il letto custodisse la propria giovinezza che sfugge attimo dopo attimo, la propria piccolissima favola che ogni giorno rischia di perdersi per sempre. Come se noi stessi fossimo la cariatide del nostro passaggio in movimento, rasentando continuamente l’oblio.