"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

ANOMALY CINEMA (3) - Belle dormant (Ado Arrietta)

Thursday, 30 March 2017 08:07

Bruno Roberti

Della necessità delle favole e della possibilità dei sogni

 

Una notte, a Parigi, di ritorno da una lunga festa a Le Sept di rue Sainte-Anne, discoteca di moda e centro della “beautiful people” (Ingrid Caven, per esempio, ma anche Yves Saint-Laurent, Nureyev, Helmut Berger, Andy Warhol, e l’altra Josette Day, sempre bella e in compagnia del mostro), mentre camminavamo con gli amici lungo la Senna, Adolfo Arrieta indicò d’improvviso l’ultimo piano di uno degli imponenti edifici che costeggiavano il fiume. Là, su quella gran terrazza che vedete illuminata, vive Sterlyng Hayden, ci disse. Io non sapevo che Johnny Guitar vivesse a Parigi. Dopo le parole di Arrieta, continuammo a camminare, quasi tutti in ossequioso silenzio, come se fossimo rimasti stregati dal fascino della terrazza dell’eroe sul fiume (Enrique Vila-Matas, i>Parigi non finisce mai, Feltrinelli, Milano 2006, p.122)

 

Un bambino racconta una favola a Jean Cocteau. Una storia di animali. “È di quando gli animali ancora parlavano”, gli premette il bambino. Cocteau ci racconta a sua volta questa storia, che sembra una favola di quando i bambini raccontavano le favole ai grandi. I bambini quando giocano ai miti, quando si raccontano le favole, si ammantano della loro necessità, le vivono, sognando ad occhi aperti. Vivono e passeggiano in un sogno e, come Confucio quando usciva di casa, dicono agli amici: “Oggi ho visto un Dragone”. I bambini si cambiano di nome, e ogni volta quel nome con cui si chiamano in sogno, è una possibilità. La possibilità di un’altra vita. Di una realtà “più vera del vero”. C’è un regista-bambino, che sembra un elfo gobbo. Si chiama di volta in volta Adolfo, Udorpho, Adorfo, Ado, Udo, e, significativamente, Elpho. È Arriet(t)a, discepolo del cinema cocteauniano e amico, da bambino, di Jean Marais. I suoi film sono giochi all’aria aperta, favole agite e necessarie, possibilità di sogni. E, come faceva Raoul Ruiz, Arrieta deve immergersi in un pisolino sul set per girare i suoi film. Mettere in scena un sonno magico, cascare dal sonno e piombare, leggero come una piuma e deciso come una pietra, o una boule de neige, sul terreno del suo sogno, rotolare nel sottobosco dove saltellano elfi e fate. E lì non meravigliarsi di nulla, come nei miti greci, dove “l’irrealtà della favola diventa verità […] Non ci si meraviglia che il sole implori Eracle e gli sia tanto riconoscente di non averlo bersagliato di frecce, che gli presta la sua coppa d’oro per attraversare il mare. Si accetta il rogo finale, la tunica macchiata del sangue e dello sperma che il centauro Nessos eiacula su Deianira. Si ammette che Eracle si travesta da donna e Onfale da uomo” (J. Cocteau, Journal d’un inconnu). Nei film di Arrieta il mondo liminale della favola resta incorollato e a un tempo fuoriesce da una evidenza tersa che è quella dei sogni lucidi. L’aria che circola nei suoi paesaggi boschivi oppure nei suoi interni domestici, o ancora nei suoi corridoi gotici oppure sotto le volte a ogiva di castelli che hanno la solidità curiosamente aerea della cartapesta di teatro, è quella di una paradossale nebulosa netta, di una sfera di vetro, del seno di una foglia o della corolla di un fiore magico fatto della filamentosa materia pellicolare, di una ragnatela filmica, entro la quale il tempo può andare avanti e indietro, così come lo scorrere di fotogrammi à l’envers. La stessa impressione del fumo che fuoriesce e rientra dalla bolla di vetro soffiato, o del fiore che si disfa e poi ritorna a nascere e a formarsi sull’impiantito dello studio cinematografico all’inizio di Le testament d’Orpheè di Cocteau. In Cocteau, nella genesi delle sue opere, che trascorrono indifferentemente tra teatro cinema disegno poesia romanzo ciò che conta è un’altra scena, il sovraimprimere al reale un plus que reèl che è dato cogliere con esattezza e lucidità in uno stato in cui proprio la chiarezza, l’esattezza matematica, il traslucido percettivo sopravvengono con intensità: lo stato del dormiveglia, il sonno vigile, l’irrompere nel quotidiano, perfino nel banale, di un’aura di favola in cui risuona la parola (for-faris) magica del fabulare che è la metamorfosi, parola baule in cui è contenuto un passaggio, meta, un formarsi, morphosis, ma anche il dio del Sonno, Morpheus, come quello della parola arcana, dei versi d’oro, dello stato ipnotico di poesia che dischiude l’altro lato delle cose: Orpheus, mito che ha ossessionato Cocteau. In Le testament d’Orpheè l’andamento onirico e l’itinerario del mito e della favola presiedono al formarsi delle immagini, avanti e indietro nel tempo, entrando e fuoriuscendo dal sonno-veglia, e incoronando il poeta-cineasta dell’aureola di veggente, di ipnotista e ipnotizzato, di sonnambulo lucido. Questo stato paradossale tra cane e lupo, questa creazione sonnambolica e antelucana si organizza intorno a una messinscena dove il mélange stilistico si rispecchia nella continua tensione tra ‘purità’ e ‘impurità’.

Scrive Jean-Luc Nancy: “L’uomo che dorme è un corpo spirituale o uno spirito corporeo, l’uno perso nell’altro e, in entrambi i casi, sotto l’uno o l’altro aspetto, è un soggetto risucchiato, debordato, es-posto o es-istente […] Il dormiente o la dormiente è infatti sempre doppio. Lui, lei è se stesso, se stessa e un altro, un’altra. Anche il loro sesso diventa indeciso in modo più accentuato di quanto non faccia in altre condizioni, perché il sonno si seduce e gode da sé, sé che non è mai un se stesso. L’anima, invece, anima il sonno altrettanto che la veglia. L’anima è tanto dormiente quanto vigile, e proprio per questo lei stessa non dorme: non viene nemmeno risvegliata: è ciò che nella veglia continuamente sonnecchia, è ciò che nel sonno veglia e sorveglia; è da una parte e dall’altra, ogni volta, quella che, dando forma e tonalità a una presenza, si tiene sui bordi, sui contorni.” (J. L. Nancy, Cascare dal sonno, Raffaele Cortina Editore, Milano 2009, pp. 63-64).

In Belle dormant, il nuovo film di Arrieta (il cui nome invariante rimanda a una ingiunzione, quasi goethiana, “Arrète!”, fermati attimo sei bello!, in cui la i interposta sarebbe l’io che fluttua nelle varie identità, ed evoca, quel nome-in-giunzione, un inseguimento delle immagini che, di continuo e benjaminianamente, fuggono, come le ninfe-farfalle e l’identità sognata e gli animali metamorfoci delle fiabe, che parlano e si trasformano da bestie in beau prince), la Principessa Rosamunda insegue una farfalla bianca, i suoi volteggi, dietro cui si cela la fata Malefica (Ingrid Caven), e che la conduce nella buia sala dell’arcolaio, dove si pungerà il dito al fuso e cadrà nel sonno dei cent’anni, piombando leggera, paradossalmente cascando ed involandosi su una poltrona-catafalco, come in un quadro di Balthus (che pure ha dipinto una jeune fille che si vede svolazzare attorno una farfalla). La farfalla per gli antichi era Psychè, immagine dell’Anima e incarnazione della fanciulla Psiche nella fabula di Apuleio, Eros e Psiche, che è l’archetipo della Belle et la Bête, cui certo Arrieta pensa nel girare l’altra favola della Bella Addormentata (e se il mostro-bestia è estroflesso nella fiaba barocca, e in Cocteau è un trucco facciale che maschera il fatto che Jean Marais è, come diceva Cocteau, “semplicemente bello e basta”, nella Belle Dormant si insinua il sospetto che è nel corpo dormiente stesso della Belle che alligna il mostro-bestia, destinato all’invisibile, così come l’invisibile delle immagini è il loro lato selvaggio e bestiale).

Nel film una buona fata-avventuriera ci accompagna nella foresta misterica: è Gwendolyne (Agathe Bonitzer) sotto le spoglie di una inviata Unesco venuta a studiare i boschi della Lettonia (ma che quando si specchia torna a vestire gli abiti d’epoca di un antico amore), dove si erge il Castello in cui abita un principe, dal nome nordico di Egon, il quale non pensa ad altro che alla Belle Dormant che forse lo sta sognando in quel momento in un altro castello, e intanto conduce con gli amici una vita depensata sui tamburi suonati a perdifiato nella foresta. Imbarcatosi con il precettore, che è Mathieu Amalric, su un elicottero in spedizione archeologica, e perseguitato dal malevolo padre regnante e dalla Feè Mechant, il Beau Prince, che ha le fattezze di uno Jean Marais redivivo nel fulgore della giovinezza (Niels Schneider), si sottopone alle ferite rituali e al passaggio iniziatico inoltrandosi nella giungla dormiente del Domaine de Kertz e dimenticando i suoi tamburi nella notte suonati dionisiacamente con gli amici. Un sortilegio avvolge nel sonno centenario l’anacronico reame che sarà risvegliato, come si volesse risvegliare il tocco canoro di Dèmy e il tintinnio arcano delle immagini che si vetrificano e si sciolgono come cera di candela in Cocteau. Fluttua euforico il film come un’ala e una bolla iridescente, si infantilizza e si fantasmizza nelle sue volute solari e occidue, nei raggi che penetrano dalle finestre semicoperte da tendaggi-sipari a trafiggere e risvegliare, far cadere e rialzare il corpo pellicolare della principessa bambina

L’attraversamento di un boschetto presiede altrettanto al precedente film di Arrieta, Narciso (2003), dove appunto la foresta è la bava di sogno che cola dal corpo silente e adagiato su un letto tra le fronde, di Dioniso, circondato dalle sue ninfe-menadi (che all’inizio sbranano Penteo il cui volto tra gli arbusti spia la festa campestre, l’orghia sacra delle baccanti, e il cui corpo sbranato, ridotto come quello di Orfeo a una “testa” che sbuca dalle foglie, ritorna, come resuscitato, a traguardare le immagini che gli scorrono davanti). Bacchus (il nome di Dioniso nel film è quello usato da Cocteau per un suo balletto) dunque viene accarezzato e vezzeggiato dalle ninfe, che si chinano su di lui solleticandolo con piume, e viene come baciato (o gli si sussurra qualcosa all’orecchio?) da Narciso. È la postura del principe che si china sulla Bella Addormentata sfiorando il bel volto con le labbra. Il bacio occulto non solo risveglia i corpi, li anima, ma anche ri-trasforma in bestia mostruosa o nelle belle membra di un principe. In questo gesto rimano (come baciate) le immagini, in cui, reclinate, aleggiano aure palingenetiche e gli atomi si riorganizzano, mutandosi, nel morphè della physis, nell’addormentarsi e risvegliarsi e prendere forma e trasmutarsi dei corpi (umani, divini, animali) della natura, nel suo stato illusorio di simulacri, di parvenze dietro il velo di Maja, nello spazio trasmutatorio e risonante della Kora. Questo movimento è per cineasti come Cocteau e Arrieta (ma anche Ruiz, Oliveira, Murnau, per dirne solo alcuni) è il moto-a-pensiero stesso del cinema che incarna e materializza le anatomie sottili. Se in Narciso, simultaneamente al corpo di Narciso (corpo-narcotico, dal momento che il fiore oppiaceo, come l’oppio in cui si immergeva e da cui riemergeva Cocteau, è inerente a Narciso, e il suo ek-status è quello, reclinato al fonte, di rispecchiarsi in una immobilità mobile, in uno stanziarsi tremante, l’immagine ‘che trema’ di cui parla Agamben a proposito di Warburg, delle sue ninfe-farfalle e delle sue mnemosyne) Arrieta pone il corpo dormiente di Bacco (il cui risveglio richiama termine alla festa campestre, sogno del dio, i “sogni degli dei sono incomprensibili”, e al film che si rilancia e ha la forma di un incompiuto, una volta, come si dice nel film, che Narciso si è trasformato in fiore e Eco, parvenza della fuga di ripetizioni delle immagini fonetiche nell’aria, ha convertito il suo corpo nuotante in aria) e insieme pone il corpo di Adone, altro semidio adagiato e cullato e amato dal femminile-naturale e tramutato in fiore di sangue cioè in anemone: tutto ciò attiene al farsi del film come possibilità sognata e necessità empatica del vissuto fiabesco. Il ripercuotersi e lo sdoppiarsi del corpo filmico di Narciso assume da un lato, quello di Dioniso, l’incrociarsi della frenesia bacchica del movimento continuo e danzante con lo stesso “sogno” di Bacco, la cui attività sonnambula connette fermo fotogramma e mettersi in moto delle immagini, immagine fissa e suo scorrimento, e, dall’altro, viene alluso nel corpo di Adone, che si dipana nella seduzione intervallata, nel suo stanziare sulla superficie terrestre in un periodo dell’anno e nella sua catabasi nelle latebre del sous terre in un altro letargico periodo, dove evidentemente dorme in attesa di risvegliarsi nel printemps venuseo. Nei film di Arrieta le metafore corporee sempre in movimento e in dialogo tra loro e con l’endroit naturale hanno la caducità e insieme l’eternità di un ciclo temporale, entro cui si rappresenta e si decostruisce la stessa rappresentazione teatralizzata del tempo e delle azioni, come una pennellata fluida di Renoir padre, come la mobilità dei piani sequenza di Renoir figlio (del resto Jean Renoir a proposito di Renoir “mio padre” ricorda come il vecchio pittore quasi cieco e paralitico fosse invaso da un furore “pingendi”, quel furore bacchico o panico, che Platone ben conosceva, e che viene portato da un vento di ri-creazione, come in Partie de campagne o Le dejeuner sur l’herbe di Renoir figlio): “Quando la carezza del suo pennello scivolava sulla tela, generava raggi. Dipinse il grande quadro delle Bagnanti. […] Renoir chiese il pennello e i colori, e dipinse alcuni anemoni, che la domestica aveva raccolto per lui nel giardino […] e disse : “Credo di cominciare a capirci qualcosa”. (cfr. P. Citati, Sogni antichi e moderni, Mondadori, Milano 2016, p.387). Nel film di Arrieta le folate di vento è come fossero emesse dal respiro sognante di Bacco di cui si dice: “chissà se non sta sognando, chissà se questa festa non sia un suo sogno”. E la festa è lo stesso intessersi del film, la sua anatomia occulta, che viene richiamata alla luce dai raggi apollinei proprio nel loro non poter penetrare nelle caverne del sogno, come il raggio della proiezione di un film risveglia le immagini la cui luce inerente non può penetrare, essendo i fotogrammi intervallati dal buio, nella caverna della camera oscura. Il vento che scompiglia veli, capelli, petali di fiori, narcisi o anemoni, è lo stesso che anima lo scorrere del sangue delle immagini e che fa incarnare a un tempo Belle e Bestie, fanciulle in fiore e demoni-dei, animali e semidei, in una teoria delle identità, delle ombre e delle luci (come avviene altrove in Split di Shyamalan, film massimamente cocteauniano, che non a caso rimanda ai Chavaliers de la table ronde e a La belle et la bête di Cocteau, entrambi testi in cui l’impossessarsi invisibile, l’abitare dell’invisibile, i corpi feriti da scene primarie e intente a scambiarsi eros e visioni, sono preminenti, e Shyamalan non a caso cita direttamente Le Bagnanti).

Cocteau racconta così la genesi della sua pièce graalica Le chevaliers de la table ronde, da cui Arrieta ha tratto nel 1992 un suo film, Merlin: “Nel 1934 ero malato, mi svegliai un mattino dismettendomi dal sonno e d’un tratto assistetti a un dramma il cui intreccio, l’epoca e i personaggi mi erano il meno familiari possibile. Aggiungerò che ne ricavai una impressione stranamente fastidiosa. Fu tre anni più tardi, quando Igor Markevitch mi forzò la mano affettuosamente che riuscii a snidare l’opera dal suo guscio di nebbia dove la mantenevo nascosta in un angolo, così come, quando siamo malati, ci accade di prima mattina che prolunghiamo i nostri sogni e borbottiamo tra veglia e sonno e immaginiamo un mondo intermedio che ci eviti lo choc della realtà. Una volta scritta la pièce mi documentai, e mi trovai di fronte alle mie responsabilità di favolista…” (J. Cocteau, introduzione a Les Chevaliers de la Table Ronde, trad. mia). Altrove, in una nota ai Chavaliers de la table ronde, Cocteau aveva dettato: “Tutto l’elemento sovrannaturale del dramma dovrà essere messo in scena con la massima accuratezza e dare una impressione realistica.” In Le Chevaliers de la table ronde, lo spazio centripeto della scena rispecchia la centrifugazione operata dal demone che si sostituisce ai personaggi, che penetra nei loro corpi e si amalgama alle loro anime costituendone un ‘doppio interno’ (come succede per ogni grande attore, ‘mostro sacro’, avrebbe detto Cocteau), li depersonalizza, li spossessa. In questo spazio dell’incantamento selvaggio rappresentato da Merlin, irrompe come un detective l’apollineo Galahad. È l’incontro empatico tra luce e tenebre, tra il fondo oscuro dei sonni infilati nelle tasche e il rivoltare, tasca o guanto, la stoffa dei sogni verso la luce misteriosa del cinema, ciò che interessa Arrieta nei suoi incontri ossessivi con il fantasma incarnato di Cocteau, e nella sua detection di misteri che restano fluttuanti e insoluti ma che si sciolgono pur tuttavia nell’acqua delle immagini, dove come iridescenze si riflettono le accensioni di bagliori. La luce che penetra da fessure e si infiamma (Flammes è il titolo di uno dei suoi film, tra i più abbacinanti), che si insinua nelle ombre dei boschi, che si allarga a macchia di colore, spesso rosso, nei fondi delle sue false prospettive, è ciò che viene animato sia in Merlin (dove sembrerebbe che l’invisibilità del demone che attraversa i corpi abbia a che fare con il modo di illuminarli), sia in Narciso (dove i riflessi acquatici e le ombre degli alberi modellano di luce i corpi danzanti e sembrano vibrare nel corpo dormiente e silente di Dioniso), sia in Belle dormant (dove le lame di luce negli anditi del castello o nella casina di caccia, o nella capannina del bosco, nel punteggiare degli specchi riflettenti, nei passi oscuri che percorrono la foresta iniziatica, sono indirizzati a rimettere in moto quel ‘fermo immagine’ che folgora nel sonno i gesti e le azioni del reame nel castello, e, appunto, l’arr(i)ete delle immagini, il fermo fotogramma sul corpo vivente delle immagini riprese fa sì che tutto l’incedere filmante di Arrieta sia diretto a questo scopo: rimetter in movimento reviviscente le immagini stesse)

 

Cocteau in una intervista radiofonica rispose così a questa domanda: “Ora che avete una casa, facciamo una sgradevole supposizione. Se si scatena un incendio, quale oggetto salvereste?”, “Credo che salverei il fuoco”. La luce entro cui il fuoco e il sangue delle immagini palpitano è quella stessa entro cui si bagnano i bambini quando prendono sul serio le favole e sorridono nei sogni.

 

 

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