"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

ANOMALY CINEMA (2) - Seijun Suzuki

Thursday, 30 March 2017 08:08

Roberto Silvestri

Crazy Seijun Suzuki. La grande rivoluzione culturale proletaria si scatenò anche nel cinema giapponese degli anni sessanta

 

Cos’è il Suzuki’s Style e perché Wong Kar-Wai, Jim Jarmusch e Quentin Tarantino non ne possono fare a meno?

Si tratta di un cocktail, improvvisato ma su partitura visuale ferrea, composto da: narrativa frammentaria e non-sense, straniamento brechtiano, micidiale umorismo anti militarista, angoli di ripresa impossibili, intrighi ellittici, alta frenesia sessuale, sempre intrecciata alla più spasmodica simulazione della violenza tra amanti (parodiata dall’ispettore Clouseau nelle sue lotte improvvise con il cameriere cinese), immagini surreali, paesaggi onirici, soggetti (donne e uomini) poco assoggettabili, colori accesi, cromatismi furiosi, azione crudele, montaggio pazzo e recitazione stilizzata, ma popolare, alla maniera kabuki… Ma c’è di più. E dovremmo ribaltare la triste notizia della sua morte in occasione di studio e diffusione delle sue opere rivoluzionarie. In rete, nei festival, in tv. In italia piuttosto sconosciute. Seijun Suzuki, nato nel 1923 nel quartiere centrale di Tokyo Noihonbashi con il nome Suzuki Seitaro, era entrato come assistente regista nel 1954 negli studi Nikkatsu riuscendo, dal 1956, a dirigere b-movie d’accompagnamento a produzioni di serie A per i doppi spettacoli. E proprio assieme al suo designer produttivo, Takeo Kimura, complice dal 1963, aveva “brevettato”, da The Bastard, uno stile originale e anarchico di riprese e di montaggio.

Il motivo di interesse speciale per Suzuki, anche oggi, ce lo spiega il critico giapponese Hasumi Shigenhiko in un libretto edito dal festival di Rotterdam del 1991.

SuzukiOgni accurato film da “studio Shochiku” di Ozu, una produzione Toho qualunque di Naruse o Kurosawa o un Daiei di Mizoguchi, mette in rapporto i personaggi con il freddo o il caldo, la pioggia o l’arrivo della primavera. Il clima interferisce sempre e profondamente con le azioni dei protagonisti. Pensiamo ai Sette Samurai. La vittoria morale dei contadini sui samurai è intrecciata al raccolto e alla stagione delle piogge. Lo spettatore giapponese aveva familiarità con questi simbolismi. In un film di Suzuki, invece, anche se non mancano le minacciose nubi nel cielo, il caldo estivo, la neve o i ciliegi in fiore, i personaggi non hanno alcuna relazione con le stagioni. Suzuki non vuole strutturare i suoi film usando elementi non cinematici. Non sentono la temperatura che si alza o si abbassa, i suoi controeroi. Sono insensibili all’haiku e al profumo dell’hanami. Una vera eresia fisiologico-culturale. Pensiamo a Akutaro (1963): in piena estate non appare un solo fazzoletto per deterge il sudore, come avrebbe imposto Kurosawa. Alla ghiacciata e infuocata cella di Irezumi Ichidai (1965) il prigioniero non reagisce. Nessuno è infreddolito nel rigore invernale di Kenka Erenji (1966). O si accorge delle calde piogge estive improvvise che rompono la stagione in Oretachi No Chi Ga Yurusanai (1964). Lo yakuza di Tokyo Nagaremono (1966) o di Hana To Doto (1964) è al di là del gelo e del torrido. Indossare la t-shirt qualunque stagione sia oggi è diventato ovvio per le nuove generazioni post punk. Segnaletica delocalizzante e destabilizzante, come il metallo in bocca o nel naso e i tatuaggi delle tribù amazzoniche che i teenager occidentali riproducono oggi, fieramente traditori.

Ma, in quei tempi, si trattava proprio di pura, sfrontata esibizione un-japanese.

L’aria e il mare tossico della industrializzazione forzata e criminale che stava rimodernando il (conto in banca della classe dominante del) paese obbligavano a un lirismo altro.

La pioggia non è più, dunque, la divinità lirica di Naruse. Non troverete nessun riferimento stagionale, alla Tanizaki o alla Kawabata, nei titoli di Suzuki. La luna pallida d’agosto non c’è. Siamo insomma alle scaturigini della sensibilità post-moderna. Una bomba atomica fatta scoppiare dentro le impalcature strutturali del genere (il thriller, la commedia, il melodramma, il cappa e spada, il pink, il taiyozoku, cioè il genere giovanilistico “sun tribe”…) che forse reggono e forse no.

Suzuki arriva dopo la grande generazione dei realisti (Griffith, il cinema sociale degli anni trenta) e dei moderni, di cui naturalmente, condivide lo sguardo antirealista: Kurosawa, Fellini, Welles, Bergman, Antonioni…. Diciamo allora meglio: Robert Aldrich, Samuel Fuller, Don Siegel, per capirci nella nostra lingua. Cos’è Kiss me Deadly in giapponese? Noel Burch tradurrebbe, come equivalente cult movie, Tokyo Nagaremono (Tokyo’s drifter).

Suzuki è un pezzo sulfureo di quella new wave anarchica giapponese sintetizzata dalla suggestione critica “Eros più Massacro” che lo accomuna meno ai film Nikkatsu sulla gioventù bruciata (il famoso Crazed Fruit di Nakahira scopre e si incolla, a proposito di stagioni, alla frenesia delle spiagge estive, del mare, dei juke-box e degli occhiali da sole…) ai più esplicitamente politicizzati Koji Wakamatsu e Adachi Masao, al pioniere Masumura Yasuzo, e ai giganti Masahiro Shinoda, Yoshishige Yoshida e Nagisa Oshima. Perfino quest’ultimo era più attento alle stagioni (ricordate il gelo che ci penetra la pelle in Shonen, Ragazzo; o Sun Burial?). Per non parlare di Imamura, che poi realizzava per la Nikkatsu proprio quegli A movie seguiti dai B movie di Suzuki. Certo i critici amavano più La donna insetto (il film di Imamura è stato il preferito nel 1965) che Kanto Mushuku (solo 29° in classifica). Il pubblico molto meno. Finalmente al simbolismo delle stagioni non era più permesso di interferire con il flusso narrativo, con isotopi compatti di spazio/tempo senza orpelli simbolisti. Se i fiori di ciliegio appaiono in quel film non è per segnalare l’arrivo della primavera o per simbolizzare le cose spazzate via del vento così come la neve è il simbolo delle cose permanenti (come la morte) e la pioggia del mutar delle cose, ma per l’importanza che Suzuki dà al dettaglio. Le sue immagini della natura sono esagerate, “estraniate”. Una rivoluzione. E c’è perfino un intento parodistico e sarcastico perché Suzuki fa letteralmente a pezzi i luoghi comuni stagionali perpetuati dagli haiku e dalla tradizione. In questo film la segnaletica invernale, primaverile e autunnale è situazionisticamente disconnessa. Improvvisamente arriva la neve in un paesaggio che non ha nulla di invernale. E poi ecco il tintinnio secco dei campanellini eolici, collegato nei simbolismi doc all’estate. Un vero spaesamento accentuato dall’improvviso bruciare in lontananza, delle stoppie, che per ogni haiku che si rispetti è la figura dell’autunno…

Oltre tutto con l’arrivo del Cinemascope e la possibilità di mettere in contrasto il movimento verticale con l’ampio spazio orizzontale la potenza visuale delle immagini si moltiplica. Pensiamo alla magnifica scena della caduta dal soffitto dei bambini in Zigeunerweisen (1980). Nella Ballata di Narayama (1983) di Imamura, la caduta della neve, nella scena finale, simbolizza la morte, ed è una sequenza priva di tensione. Anche se il film fu Palma d’oro a Cannes per la sua forte suggestione esotico/poetico/climatica. In Kenka Erejii (1966) Suzuki non usa la neve come simbolo ma come uno dei tanti elementi contraddittori che istigano all’azione. Nella scena finale la neve non dà sensazioni fredde, ma anticipa la suspense dell’imminente castigo. Il protagonista, Kiroku, ferito nel tentato colpo di stato degli anni trenta (tanto glorificato da Mishima) scappa in treno nella notte nevosa verso Tokyo. Evitando a tutti i costi di alludere alla stagione, Suzuki sottolinea l’inalienabile diritto dell’autore a coreografare figure, azioni, movimenti. “Proprio come Kiroku - scrive Shigenhiko - sotto l’influsso di Kita Ikko, rivoluzionario di estrema destra, parte silenzioso per Tokyo, molti giovani saranno attratti dalla forza silenziosa di film di Suzuki”. Cineasta però più che progressista, Suzuki godeva un mondo nell’andare contro i diktat della conservatrice Nikkatsu (e gliela fecero pagare). Inoltre.

I suoi legami con il cinema americano suo contemporaneo sono sempre stati più espliciti e riaffermati in ogni occasione. Ricambiato? Sì. Joan Mellen lo vuole nel suo libro sui grandi cineasti giapponesi della nuova e vecchia onda. Nel 1999 Jarmusch dedicò proprio a Suzuki Ghost Dog: The Way of the Samurai. E senza l’etichetta dvd Criterion che ha pubblicato in edizioni accurate molto suoi capolavori come potremmo parlare di Suzuki?

Ma era stata la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro a rilanciarlo mondialmente. Ed è lì che lo abbiamo scoperto (non c’entrava con la omonima motocicletta) e intervistato nel 1984. Gentilissimo. Un grande vecchio signore con le ali e la barbetta da saggio, avrebbe detto Fernando Birri.

Quando nacque la formula Suzuki? Fu intuita in Detective Boureau 2-3 (1963), storia di un detective privato che si infiltra tra gli yakuza, e in La giovinezza della bestia (1963), grande successo commerciale, poi perfezionata in Tokyo Difter e Elegy of Violence nel 1966, un testo antifascista di perfida efficacia. Si può dire che fu testata da questo visionario anarchico in tutta la prima metà del decennio 60 (i pink movie Gate of Flesh, 1964, violenta suite sulla prostituzione e il mercato nero nel dopoguerra, a colori pop incandescenti e Storia di una prostituta; La vita di un tatuato, Age of Nakedness, Everithing is in Chaos…). Ma nel 1967, completamente perfezionata, divenne l’incarnazione della ribellione estetica in cinemascope contro tutto il cinema ortodosso esistente. Un mostro. Era come se Ornette Coleman Quartet fosse capitato per sbaglio in un jazz-film di Chazelle.

E così Suzuki venne violentemente combattuto perchè inattuale, esplosivo, free, astruso e soprattutto contagioso.

Infatti il regista, che fino a quel momento aveva inanellato una quarantina tra disciplinati yakuza movies, film di cappa e spada basati su copioni tremendi e sei pink movies (softcore) a basso basso costo ma ad alta resa tra il pubblico teenager, fu licenziato in tronco dal boss conservatore della Nikkatsu nel 1967. Kyusaku Hori giudicò “totalmente incomprensibile” Koroshi no Rakuin, negli Stati Uniti Branded to Kill, intitolato in Francia La Marque te tuer e in Italia La farfalla sul mirino. Sicario n.2 contro Sicario n.1 che ha il compito di eliminarlo. Un thriller di sensuale violenza, con distrazioni erotiche folgoranti e una scala a chiocciola di conturbante effetto feticista, che per continuare con i paralleli potrebbe essere l’equivalente di Crimine silenzioso di Siegel rimontato da Godard e fotografato da Kazuo Miyagawa (ovvero da chi illuminò sia Mizoguchi che Masumura). Un capolavoro che oggi è unanimemente considerato uno dei grandi film giapponesi di sempre, con il fido Nagatsuka Katzue alla macchina da presa, interpretato dalla super star dei b movies, Joe Shishido. Quel nomignolo Joe, poco nipponico, era posteriore a una plastica facciale che gli aveva rialzato e gonfiato gli zigomi, per deviare la sua bellezza verso una fisionomia più “all’occidentale”.

Così per 10 anni, e nonostante la vittoria in tribunale di Suzuki (per inadempienze contrattuali della Nikkatsu), i set di tutte le grandi compagnie giapponesi gli chiusero al porta in faccia. E, spalleggiata dalla critica mainstream che è sempre pericolosissima e a volte infame, la Nikkatsu impedì a chiunque di proiettare un solo “Suzuki’s movie”, e ovunque nel mondo. Era un regista “sovversivo” e oltretutto un piantagrane. Non esistevano poi, a quei tempi, tele-camerine digitali, e fino al 1977, quando riassaporò il sapore del flop con una produzione indipendente, Story of The Grief and Sorrow, non si sentì più parlare di lui. Caratteraccio. Niente interviste. Intanto la Nikkatsu, nel decennio successivo, e per sopravvivere, produsse pinku eiga affidati a giovani cineasti sperimentali, molti liberi e estremi (tra questi Zeze Takahisa). Suzuki era fermo, ma la sua lezione era stata metabolizzata e i suoi film già diventati dei cult-movies-pericolo-di-morte.

Seijun Suzuki è morto a Tokyo il 13 febbraio 2017 per polmonite cronica, ma quel film censurato scatenò una irreversibile rivolta sessantottina tra i cineasti giapponesi consapevoli. Nagisa Oshima, già scottato dalle pesanti interferenze e dai boicottaggi ai suoi film della Shochiku, aveva fondato una sua compagnia indipendente, la Sozhosa, nel 1965, soprattutto a causa dell’ “umiliazione di mercato” subita da Notte e nebbie del Giappone (1960). E lanciò il sindacato dei cineasti di sinistra contro quel sopruso, e anche contro il bando ministeriale al suo L’impiccagione (reo di aver sollevato la questione scottante del razzismo giapponese anti-corano). Una situazione molto simile alla guerra parigina di Truffaut, Godard & C. dalla parte di Langlois, licenziato alla Cineteca parigina dal ministro Malraux.

 

Ma Suzuki resuscitò davvero solamente nel 1980 quando a Berlino venne premiata la sua ghost story Zigeunerweisen, e l’Accademia giapponese del cinema gli attribuì 4 Oscar. E a Venezia nel 2001, quando si proiettò fuori concorso il remake di Branded, Pistol Opera (finito nel 1999).

 

 

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