Some came running
Per chi il calcio resta lo scorcio fra lo sventolio di una bandiera e un battimani ritmato, essersi concessi un’intera religiosa giovinezza in quello spicchio di verità che si chiama Curva e averla costellata anche solo di sprazzi e apparizioni (e centinaia di gol) di Francesco Totti, è un privilegio raccontabile solo se si accetta l’irraccontabilità di questa prodigiosa corsa di un ragazzo e della sua città tra le maglie strettissime del vedere e del non vedere (torce e fumogeni, che la stupidità di lor signori chiama artifizi pirotecnici, sono solo un ricordo, ma restano a loro volta parte integrante di un modo di respirare collettivo l’invisibile). Certo che facciamo finta di non vedere le cifre di contratti milionari o la puzza dell’inganno in qualunque campionato. Certo. Perché? Perché, ‘sti cazzi. “…l’odore dell’erba così da vicino, il sole in faccia mentre corri verso la porta avversaria…” Il privilegio è sapere che il capitano dell’As Roma conosce, di queste parole, il controcampo: …l’odore degli spalti e delle persone così da vicino, il sole (e la pioggia!) in faccia mentre corri, proprio premi, verso il campo… Campo e controcampo. Campo e controcampo (Godard..).
Non è romanticismo, sia chiaro. È la semplicità imperscrutabile con cui si addensano attorno a un movimento (il calcio a un pallone) cose complesse come separazione, potere, paura del potere, paura del prima, paura del dopo, tempo, spazio, eternità, irrazionalità. Agostino Di Bartolomei, l’altro Capitano, l’aveva detto, era il mio sogno fin da bambino, il sogno di tutti i bambini (a Roma per la Roma, precisiamo, perché, fatevene una ragione, è differente). L’arena piange un fiume di lacrime perché ogni singola storia è un’unica storia, e dunque l’addio a un calciatore non è solo l’addio a un calciatore, è un improvviso big bang di memorie involontarie in risalita (nel senso più precisamente proustiano, e cioè irruzione di posizioni fisiche definitive assunte inconsciamente nel corso della vita e quindi ritornanti perché mai davvero vissute, eternamente appartenenti all’ordine della paura e del desiderio). Un guizzo unico e circolare che strappa uno stadio strapieno a se stesso e al cielo. Gettandolo in quale dimensione? In verità è tutto molto più semplice: “…ho cercato, in questi anni, di esprimermi attraverso i miei piedi…” Ognuno pensi al volo ai primi tre gol di Totti che gli vengono in mente (uno contro la Sampdoria palla incollata al piede per cinquanta metri e tocchetto a effetto all’angolino; uno di potenza a scheggiare la traversa contro la Lokomotiv Mosca; uno contro l’Udinese con palla stoppata di testa e calcio al volo di destro) e provi a dare una forma visiva alla posizione del piede. Esercizio eminentemente cubista sintetico dove la simultaneità del ricordo sfuggente e occasionale coincide con l’abbattimento d’ogni astrattismo e la posa del pezzo unico: il piede. Collo? Piatto? Tacco? Punta? Esterno? Pianta? Non è abbastanaza chiaro che ognuno di questi aggettivi pedestri bastano da soli a descrivere una vita? La tua fine è la nostra fine, parte di te e parte di noi, piedi ovunque. Ma, anche qui, le parole non rendono giustizia: cerimonia, trauma, riaggregazione, addio.. Invece, cincischiare col pallone in mano sotto la Sud, darle quasi le spalle e poi scriverci sopra “Mi mancherai” e calciarlo in Curva come per caso, beh quello non sarebbe venuto in mente neanche a Vincente Minnelli (siamo fra Brigadoon e Some Came Running).
Un bel contropiede (non le fottute ripartenze: contropiede!) spazio-temporale. E, nel rivolgimento, il barlume di coscienza: “maledetto tempo”. Nella lettera peraltro non si parla mai di futuro, e in un bell’articolo su “L’ultimo uomo” al direttore Daniele Manusia sfugge (?) che Totti è un’immagine senza futuro. Cristo, i Lumière. E si sa che intendevano ben altro. Non si tratta di credere o meno nel cinema, si tratta di provare a capire cosa significa, ancor più che vedere, rivedersi. Addio? No, ar-rivederci. Proprio a noi che, diciamocelo, ci dava tranquillità anche solo sapere che eri in panchina? “Questa volta sono io che ho bisogno di voi”. Pura geniale trasmissione di potere (e dunque della paura di possederlo) e definitva dichiarazione dell’eternità del legame, tanto concreto quanto invisibile. Esattamente come un gol intra-visto dalla Curva. Non si tratta di vedere bene, si tratta di vedere. Forza Roma. Sempre.