Nessuno di nome Jim
“I’m breaking through / I’m bending spoons / I’m keeping flowers in full bloom /I’m looking for answers from the great beyond” (R.E.M, Michael Stipe, The Great Beyond). Durante il primo giorno di riprese di Man of the Moon, Milos Forman chiama Jim Carrey per istruzioni sul film imminente; la laconica risposta che riceve è: “Su questo set non vedo nessuno di nome Jim”. Vi siete mai chiesti se ci sia qualcosa di cui non si possa scrivere? Io si, davanti a questo foglio bianco, ogni volta che ho cercato di riempirlo con qualche parola, senza successo alcuno. Come se attorno a me non ci fosse nessuna frase, molto vicino al vuoto che avrebbe potuto provare Forman a quel punto. Il primo significato di ciò, senza bisogno di significante, l’ho proprio trovato in quella domanda, o meglio nell’attesa di quella risposta possibile dal grande buio delle cose. Chissà cosa potrebbe dire Andy di tutto questo vociare, chissà se ha davvero raggiunto la luna e se la si stia divertendo lassù. Sicuramente Tony Clifton sarà proprio lì a sfotterlo col suo ghigno prorompente, mentre Jim è ancora qui, a galleggiare su quell’interrogativo disperso tra fiori e cucchiai, come tutti noi. O forse no. Ma in fondo cosa importa, secondo voi c’è qualche differenza? Per chi tenta di scrivere no, perchè nella metamorfosi affascinante quanto inquietante di Jim sul set di Man of the Moon ci siamo tutti noi, perchè di mezzo ci sta il senso più profondo e sensibile dell’esistere, della maschera, dell’esporsi, perchè quel nervo scoperto del nostro appartenere a questo pianeta fa sempre male, terribilmente male. Probabilmente Jim tutto questo non lo sapeva quando ha intrapreso con coraggio un viaggio straordinario quanto rischiosissimo, un viaggio dal quale molto probabilmente non è mai riuscito a tornare, un viaggio che nessuno di noi verosimilmente è disposto ad intraprendere. Nessuno nel suo intimo può sapere realmente cosa sia vero o meno, l’importante è che le nostre emozioni siano davvero reali. Tutto il resto è solo un attraversare il tempo in attesa di quel grande buio delle cose, naufragare tra parole e simboli.
Su quel set tutti avevano compreso che stava succedendo qualcosa di molto strano. Da Danny DeVito a Paul Giamatti, dall’ex ragazza Lynne Margulies allo stesso Bob Zmuda con cui scriveva i testi, dal wrestler Jerry Lawler a Courtney Love che doveva essere la compagna di Andy nella ‘finzione’. Andy Kaufman era tornato, sceso sulla terra, viveva con la sua famiglia e dialogava con il suo amico fraterno Stipe, interpretava Tony Clifton negli studios, in un’inquietante e imbarazzante confusione di personalità e situazioni. Il film diventa il backstage, il divertimento iniziale lascia spazio al dramma prima e alla commozione poi. Lo spettacolo alla Carnegie Hall replicato in ogni dettaglio, l’incontro di wrestling con le botte per davvero, la tragicomica disperazione di un film che non pare veder la luce. Andy si ammala gravemente, perde i capelli, vaga in sedia a rotelle. Forman con la sua tropue passa dal panico alle lacrime. Sarà proprio Clifton a salutare la fine delle riprese, in un abbraccio commosso, che toglie il fiato proprio quando Andy se ne va per sempre, un’altra volta. Di Jim intanto nessuna traccia, come se non fosse mai esistito. Quello che per Andy poteva essere un tentativo estremo e continuo di rompere i possibili ponti della comunicazione e di riflettere il paradosso di un assurdo continuo e dialettico, si era portato via Jim. Carrey dirà oggi che non ha mai puntato a far ridere la gente ma a non farla pensare, così facendo però un giorno si sarebbe accorto di assorbire il pensiero di tutta quella gente (il parallelismo con la deriva di Robin Williams è più che mai vivo). Lo stesso valeva per Andy e quel suo non (far) ridere per impegno ma per identità (e necessità, quasi liberatoria). Un’esperienza unica e drammatica, che di comico può solo avere laapparenza, una distanza incolmabile tra la rappresentazione automatica e la reazione, nel saliscendi continuo tra la percezione del reale e le traiettorie dell’inconscio. Jim è nato lo stesso giorno di Andy, attraversandolo come un fantasma ossessivo, e senza dubbio una parte della sua sensibilità è morta lì, su quel set, omaggiato addirittura da Tony in una doppia possessione senza vie d’uscita.
Alla presentazione del film Jim ricompare, svuotato da tutto, senza vita né identità. Ha guardato l’oblio, camminandone sul limite e oltrepassandolo fino a una sorta di folle mimesi spirituale apparentemente incomprensibile (molti affermano addirittura che Carrey non sia mai esistito, ma fosse l’ultimo e definitivo colpo di scena dello stesso Kaufman). Nel suo racconto a posteriori, estremamente provvisorio e frammentario, pare quasi non ricordare quell’esperienza di iconoclastia dello schermo, del rapporto con un pubblico possibile così come dello spazio mai così labile e fluido tra il set e il quotidiano. Una relatività assoluta e quasi spaventosa del reale (ma così terribilmente reale, e straordinariamente vitale). Pensare di essere davanti a una camera dal tempo di esposizione infinito così da far ri-apparire l’immagine dalle tenebre, l’anima dall’oblio, la vita dalla morte. Jim quel film l’aveva nel destino, e non poteva in nessun modo sfuggirgli, Andy lo vedeva allo specchio, l’avrebbe incontrato dentro se stesso, come un fantasma materico e ingombrante che tutte le regole rifiuta. Jim era stato Andy con una semplicità disarmante, non sfidando le regole dell’interpretazione ma negandole completamente. Infatti come la personalità di Forman scompare dietro a quella di Kaufman, quella di Smith scompare dietro a quella di Carrey, e senza dubbio quella di chi vede ne viene a sua volta inglobata e lanciata verso un territorio sconosciuto e straordinariamente inesplorabile. Come queste parole, che potrebbero benissimo non essere mai state scritte, anche se voi apparentemente ora le state leggendo, frutto di un’altra mimesi tra l’esserci e l’esserci stato. Questo film è uno dei lavori più importanti e potenti sul cinema visti nel nuovo millennio, proprio per quello che non vediamo, per la sensazione di smarrimento che ci avvolge dolcemente ogni senso della percezione, come della comprensione. In conferenza stampa Carrey affermerà: “Io credo che non ci sia un me e so di non avere un sé. Noi non siamo un ego, ma un insieme di idee che ci etichettano. In realtà non esistiamo, è come se fossimo un braccialetto con un insieme di ciondoli che sono le idee che ci etichettano” Ecco la risposta forse, quella con cui guardiamo il grande vuoto, la nuda identità, scarna e pulsante, riflessa nella presenza di ciò che già non (ci) appartiene più e di cui almeno vogliamo mantenerne un’impronta. Perchè stare al cinema è anzitutto lottare e dialogare con un concetto di identità, di definizione dell’essere in potenza e in relazione al nostro posto nel mondo (anche lo stesso luogo cinema, in un certo senso). L’immanenza di ogni più piccola verità e l’assoluto di ogni più piccola finitezza siamo noi, qualsiasi cosa esso possa significare, aggrappati costantemente a un amore che fugge per la strada. Dopo tutte queste parole sono sempre più convinto che esistano cose su cui non si possa scrivere, ma l’averle scritte mi fa sognare che sull’altro lato della luna, quello che mai potremo vedere, ci sia un Tony Clifton pronto a sbeffeggiarmi perchè ho osato parlare di Andy Kaufman e di Jim Carrey. E se così fosse, sarebbe tutto molto bello. Con molta commozione e altrettanta gratitudine. “If you believed they put a man on the moon, man on the moon. / If you believe there’s nothing up my sleeve, then nothing is cool” (R.E.M, Michael Stipe, Man of the Moon)