"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

IS IT FUTURE OR IS IT PAST? 3/Locarno 2017 - La telenovela errante (Raúl Ruiz, Valeria Sarmiento)

Sunday, 26 November 2017 12:38

Daniela Turco

La Telenovela Errante, o il tempo ritrovato 

 

A ripercorrere i passaggi, quasi da romanzo balzachiano, del ritrovamento dei vari materiali sparsi de La Telenovela Errante, un film di Raúl Ruiz a lungo rimasto incompiuto, sembra di essere finiti, per una strana piega del metalinguaggio, dentro gli stessi enigmatici raccordi di uno dei suoi film: il negativo del film conservato nella Cineteca di Santiago del Cile, una copia-lavoro recuperata nella biblioteca della Duke University, negli Usa, dove Raúl aveva insegnato, e, infine, la sceneggiatura, ritrovata per caso, in un cassetto della loro casa parigina, da sua moglie, Valeria Sarmiento, al montaggio in una cinquantina di suoi film e a sua volta cineasta, che, a distanza di sei anni dalla morte di Ruiz, ha riordinato e integrato i materiali de La Telenovela Errante, per finire ciò che lui aveva iniziato, ventisette anni prima, nel 1990, in Cile.

Ed è ancora più sorprendente scoprire in questo recupero, la stessa idea fondativa di un corpo tagliato e disperso nel mondo che, oltre a dare il titolo a un suo film del 1974[1], era uno dei temi di origine barocca e diffuso nella poesia popolare, più ricorrenti e segretamente al lavoro nel suo mondo poetico, presente in ogni suo film: l’idea di essere ovunque e nello stesso momento, che si materializza ancora una volta nell’avventura stessa de La Telenovela Errante, film non-finito, disperso nello spazio, sospeso nel tempo e amorosamente ri-composto da Valeria Sarmiento, anche come tramite di un dialogo profondo tra due sposi che non si è mai interrotto, oltrepassando la morte nel segno del cinema.

Un film rimasto allora incompiuto per mancanza di fondi e immaginato come un laboratorio ludico e sperimentale per reali attori di telenovelas, ma in cui, a margine, in anamorfosi, già premeva per emergere un primo ritratto del volto sfuggente e straziato del suo paese, dopo la fine della dittatura.

Strana coincidenza che, nello stesso anno in cui è andata in onda, dopo un intervallo di tempo altrettanto lungo, la terza stagione di Twin Peaks, stupefacente oggetto mutante in aperta sovversione della stessa idea di serie, circoli anche ne La Telenovela Errante, senza neppure bisogno di formularla la stessa domanda su cui si muove la serie lynchiana: “Is it Future or is it Past?”. La Telenovela Errante, come Twin Peaks, è, ovviamente, entrambe le cose: passato e futuro, collocati, tra loro, in continua tensione, il presente - del resto - esiste solo nei brutti film, e già nel 1990, al tempo delle riprese, dal fondo remoto delle sequenze si faceva avanti il carico di una memoria dolorosa e oscura che pesava sulle immagini, mescolato a un nero sarcasmo e a uno scambio intenso e continuo tra concentrazione, dispersione e gioco, che ha composto la cifra personale e la lente di estrema precisione e di lucido disincanto attraverso cui Ruiz mostrava le forme, qui, in particolare, la forma sospesa di un paese appena uscito dalla dittatura.

L’idea originale di Ruiz partiva dal “presupposto che la realtà cilena non esiste, ma consiste in un collage di soap” e, nel 2017, l’intervento di Valeria Sarmiento sul film non avrebbe potuto essere più secco ed essenziale, limitandosi a scandire in sette capitoli/giornate i materiali girati nel 1990, durante quell’unica settimana di riprese e ad aggiungere alcune nuove sequenze dove sono inquadrate delle televisioni d’epoca, su cui scorrono le immagini di allora, così da assecondare e dilatare ancora di più, se possibile, l’idea strategica di partenza, in cui si immaginava un insieme di telenovelas prese come punto di vista sulla realtà cilena, che di quella stessa realtà, come in una sarcastica e folle messa in scena della teoria dei giochi, si sarebbe fatto, nello stesso tempo, inesorabile agente rivelatore.

“La gente ci guarda” è il titolo del primo giorno/capitolo del film, dove in un interno borghese un uomo e una donna, cognati e potenziali amanti, si scambiano giudizi negativi sulla telenovela di cui fanno parte nel momento stesso in cui vi stanno recitando, e questo non è che l’ingresso di un labirinto - forma e sostanza del film - in cui, mentre viene messo a nudo il codice finzionale, proprio per questo, può venire rilanciato, paradossalmente all’infinito, anche attraverso la consolidata complicità della musica di Jorge Arriagada, che con la sua presenza fantasma, in cospirazione con il regime delle ombre che proviene da Welles, si addensa sulle immagini, caricandole di sfumature erotiche e melò e facendo così montare una suspense che non si fa mai, però, prendere del tutto sul serio, per via di elementi atonali e discordanti che interrompono il climax e aprono nelle sequenze bizzarri e sconcertanti punti di fuga.

Il critico cinematografico Serge Daney aveva definito una volta i film di Ruiz come dei racconti iniziatici, in cui la forma era seducente, ma il fondo terribile: un fondo di rifiuti e di promiscuità che nessuna poesia può far tacere completamente,[2] e come non mettere in relazione questo senso permanente di segreta minaccia che sale dal fondo delle immagini dei suoi film, con l’idea di inconscio ottico di cui ha scritto Walter Benjamin, e, nei suoi testi di teoria sul cinema, lo stesso Ruiz? Qui, ne La Telenovela Errante, gioco di scatole cinesi a incastro, meravigliosamente infestato di lapsus, digressioni, paradossi, spostamenti, giochi di parole, slittamenti semantici continui, il tema errante del film sembrerebbe essere proprio l’inconscio, che preme di continuo con le sue pulsioni e si manifesta nel witz, nella carica corrosiva dell’umorismo, che preso nel carosello delle situazioni e dei motti di spirito, riesce a toccare, alla fine, nel profondo la tragedia di un intero paese, il Cile, che non a caso si rivela, per un attento lettore di Lacan come Ruiz, attraverso la struttura sterminata e impressionante di un linguaggio.

Così, le sequenze de La Telenovela Errante, si muovono da un capitolo all’altro, sprofondano l’una nell’altra, facendo muovere gli attori dall’una all’altra scena, moltiplicandosi in una cornice ipnotica di schermi televisivi su cui talvolta si rispecchiano, in sovrimpressione, anche i volti degli spettatori, altri attori esiliati a loro volta dalla realtà, attirati dentro questa messa in abisso esponenziale e progressiva, che rimbalza e penetra anche nel linguaggio e nei discorsi dei vari personaggi, schegge taglienti di puro teatro dell’assurdo, che scivolano e si disperdono in altre derive semantiche. Uno per tutti, il detour polisemico del 5° giorno/capitolo “Los con H”, dove si parte dalla ricerca di una via: calle de la Concepciòn, che, nei vari scambi tra i passanti occasionali, andando a tracciare l’iter e i commerci tra significato e significante, diventa prima il nome di una donna, poi una città del Cile, in seguito il nome di una battaglia ottocentesca, combattuta tra Messico e Texas, oltre a essere la definizione di concetto (concepciòn), fino a incarnarsi, alla fine, nel titolo di una delle telenovelas che proliferano nel film, La Concepciòn, in cui una dei personaggi/attori, a sua volta errante, non vede l’ora di recitare. In questa ironica e snervante ridondanza linguistica, diffusa in tutto il film, si ritrova la magnifica ossessione ruiziana, che è sempre intensamente politica, di riuscire finalmente a filmare, nel labirinto delle sequenze, la parte nascosta, il rovescio del quadro e della rappresentazione, l’irriducibile altro del film, invisibile eppure presente, che non si smette mai di cercare e che forse si può raggiungere solamente depistando e sbilanciando di continuo lo spettatore, che non può mai essere certo, qui, di ciò che effettivamente costituisce la “scena”, di ciò che sta realmente vedendo, nè dove sia il fuoricampo, che sembra, di fatto, continuamente forcluso, sbarrato da questo incastro folle e inarrestabile di sequenze che inceppano sistematicamente il filo narrativo e che proprio per questo non smettono di produrre senso.

La Telenovela Errante è stato forse il primo tentativo di Raúl Ruiz, compiuto nelle forme di un umorismo nero preso nel gioco con la morte e di labirinto ophülsiano su cui far scivolare la rappresentazione, di raccontare dal fondo più oscuro delle immagini, la lunga notte cilena e lo spaesamento doloroso di un popolo, oltre al proprio esilio permanente, che anticipa già il viaggio onirico attraverso il Cile di Cofralandes, Rapsodia chilena (2001-2002), uno dei capolavori della sua filmografia, che nel passo di un documentario anomalo continua ciò che La Telenovela Errante un decennio prima aveva iniziato.

Come ulteriore cornice a La Telenovela Errante, in apertura e alla fine, le immagini in b/n di Ruiz sul set alla fine delle riprese, ma la presenza, revenant, che nel film tocca di più è quella di una fotografia di Ruiz bambino, che compare, nella quarta giornata, posata accanto a un televisore, dove Raúl, in piedi, come una piccola sentinella, con il suo solito sguardo, tra divertito e malinconico, si assicura che il gioco continui senza finire mai.

 

 

 

[1] Raúl Ruiz, El cuerpo repartido y el mundo al reves/Utopia, 16 mm, col., 1974.

[2] Ciné Journal, Biblioteca di B/N, Marsilio, Venezia 1999, p.199.

 

 

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