Non siamo ancora civilizzati per il comunismo
Roberto Silvestri
Sono belli e biondi, oppure arcaici e ottocenteschi e hanno sguardi di fuoco come attori hollywoodiani, questi imputati.
Fa invece già paura il calvo, implacabile Andrej Vysinskij - come uscito da un qualunque telefilm britannico invece è proprio lui - questo inquisitore capo comunista che dirigerà le grandi purghe, dal 1935 in poi, ed è già qui, zelantissimo, all’opera. Ne farà una satira feroce nel 1931 il georgiano Mikhail Kalatozof in Un buco nella scarpa che è contemporaneamente la parodia dei futuri processi staliniani e dei film borghesi anti-stalianiani. Infatti fu proibito da tutti.
Ma. Le immagini scintillano. Bianchi e neri che sembrano scolpiti da Boris Kaufman o John Alton... Le manifestazioni operaie notturne di uomini e donne a favore del Partito comunista e contro quei “traditori” da annientare sono gigantesche, religiose (come le interpretò Willhel Reich) e impressionanti. Si vede e si tocca con mano, però, che il carismatico controllo delle masse può significare altro da Roma, Berlino e Tokyo anniTrenta. Certo: piani quinquennali defatiganti, stakhanovismo obbligatorio, migrazioni in massa, sacrifici operai e proletari infiniti, ma anche partecipazione a un immane progetto eccentrico e transnazionale. Costruire un paese ‘altro’, rovesciando gerarchie sociali, giocando con i pregiudizi culturali millenari e puntando completamente su un’altra classe. Fabbricare l’uomo nuovo. Fu poi capitalismo di uno stato solo, non proprio una rivoluzione controllata dal basso e radiante. Ma senza quella fantasia che sconvolse il mondo, sulle ceneri di uno zarismo tirannico e oscurantista, che aveva cancellato (formalmente) la schiavitù contadina solo alla metà dell’800, Hitler sarebbe passato e lo sputnik mai nato.
Insomma. Inizialmente appare quasi un nockumentary, altro che Kafka, piuttosto Hazanavicius, Process (Donbass), che il cineasta ucraino Sergei Loznitsa, studi in matematica e cibernetica, prima di diventare regista, ha realizzato, dopo 25 documentari e film di finzione, autoproducendo per la tv con la sua compagnia, Atoms & Void, e soldi europei occidentali, il montaggio di rari (e inediti da decenni) materiali di repertorio audiovisivi sovietici.
Il found footage che un antico allievo come lui del Vgik (la scuola di cinema di Mosca, la più antica al mondo) avrà scoperto da studente, si riferisce alle riprese e alle registrazioni, nel 1930, del processo contro il “partito degli industriali”, una dozzina di manager e scienziati di alto livello, alla guida dell’economia nazionale tra il 1921 e il 1928, grazie alla “Nep” leniniana. Si trattò di una apertura al mercato e alla concorrenza tra industrie (pur nazionalizzate) resasi obbligatoria perché la crisi economica dello stato bolscevico, dissanguato dalla Grande Guerra, dal successivo conflitto con i “bianchi zaristi”, dall’embargo internazionale e dagli errori economici del “comunismo di guerra” obbligava a un arretramento repentino dei principi sovietici, pena la carestia nelle campagne e la fame nelle città. A dirigere le fabbriche e a ottimizzare i raccolti ci volevano insomma professionisti capaci. Da richiamare, fossero pure kulaki. Da riconquistare. Da ospitare (come Misiano, il produttore italiano di cinema) e (anche) un po’ da ...arricchire, senza che i populisti dell’epoca se ne accorgessero troppo. Come ammise Lenin, sconvolto dopo le manifestazioni operaie anti-bolsceviche e per il pane del 1920 e 1921: “Non siamo ancora civilizzati per il comunismo”. Purtroppo a quasi un secolo da quel processo non abbiamo fatto molti passi avanti. Purtroppo Lenin, che era così flessibile, morì nel 1924. Purtroppo più o meno in coincidenza con questo processo il Partito comunista dell’Urss decise di travestire i commissari del popolo che diventavano non più un organo di controllo del vertice ma la polizia del Soviet Supremo. Purtroppo 9 anni dopo Stalin aveva in pugno le masse e sbaragliato strategicamente e tatticamente ogni avversario. Cancellata la Nep nel 1928, incolpò i manager e le teste d’uovo per i ritardi e i sabotaggi che impedivano al primo piano quinquennale di decollare. Anche se in realtà funzionò e impedì all’Urss di subire i contraccolpi della Grande Crisi. Ma i sabotaggi furono reali. I ritardi reali. Gli intrighi delle borghesie anticomuniste mondiali (qui si parla di Poincaré) ci furono. Il processo servì ad altro, come rito collettivo di ritorno della Rivoluzione ai suoi principi originari. I media furono tutti coinvolti e costretti ad abbassare la complessità delle forme e semplificare le parole d’ordine. Stupisce infatti, ed è quasi un “colpo di stato verso lo spettatore”, vedere tanta gente seguire le udienze come se fosse una partita di basket, per noi che abbiamo dei processi a Bukharin & C. un immaginario composto di torture fisiche, segrete, buio, carteggi clandestini ed esecuzioni brutali. Durante il processo gli imputati confessano tutto e non si fanno difendere da avvocati (tranne uno, ma Loznitsa ha tagliato impietosamente la sua arringa), anticipando già i comportamenti della destra filo Nap e della sinistra trotskista (e pianificante) che Stalin farà fuori successivamente. Si parla tra marxisti. Il fine è l’edificazione dello stato socialista. Non è di casa il facile moralismo delle anime belle.
Insomma bisogna applicare al film di Loznitsa la stessa domanda di metodo sulla violenza storica (non “inventata” certo dal comunismo) che faceva Merleau Ponty in Umanesimo e terrore ai critici liberal delle grandi purghe come Koesler in Buio a mezzogiorno: “Ne capisci il senso marxista?”.
Dopo 11 giorni di dibattimento il verdetto finale. Condanna a morte per alcuni, poi commutata in più miti e utili pene, vista la qualità di quei cervelli “sabotatori e venduti al nemico capitalista” e la loro dichiarazione di colpevolezza. Ma, come diceva l’imputato del film di Kalatozof il problema del piano quinquennale non è il sabotaggio. Non è il “partito degli industriali”. Non è Poincaré che dalla Francia sobilla. È il culto della quantità produttiva. Si deve produrre un numero tot di scarpe. Fatto. Ma se poi le scarpe sono fatte tutte malissimo per tenere i ritmi di produzione il socialismo ha i giorni contati. Su questo punto di discussione il non marxista Loznitsa (che pure ha scritto parole bellissime in memoria di Kira Muratova pubblicate sull’ultimo numero di Film Comment) deve avere tagliato. Sbadigliando di noia.