"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Bone Tomahawk (S. Craig Zahler)

Tuesday, 23 February 2016 13:00

A Matter of Fact

Giulia D’Agnolo Vallan

Quattro uomini a piedi punteggiano i grigi bruni di un deserto sassoso. Le camice bianche inamidate sempre più sporche di polvere. Uno di loro zoppica pesantemente, ferito a una gamba. Un altro, la stella da sceriffo appuntata sul panciotto scuro e un’elaborata barba grigiastra, sa di aver intrapreso una missione ingrata. Il suo vice è un vecchio che parla troppo. L’ultimo è un pistolero con la pelle alabastrina striata da baffi nerissimi, che ha giurato morte a qualunque indiano incontri sui suoi passi.

Bone Tomahawk, un western che apre in un paese sonnolento, da cui vengono rapiti una donna, un carcerato e un secondino, e culmina, più di due ore dopo, in una caverna di cannibali, decorati e armati di ossa umane (si rivelano taglientissime) - come i marchingegni che si inseriscono nella trachea per produrre ululati metallici che gelano il sangue. Ma di che tribù fanno parte? “Trogloditi, anche se per voi bianchi saranno indiani come tutti gli altri”.

Tra la frontiera boriosa e inutile del revenant di Inarritu e quella archetipa, repackaged via Agatha Christie, di Quentin Tarantino, è arrivato a sorpresa, a rinvigorire il genere, questo piccolo film - un’alchimia di splatterpunk e Howard Hawks, Sentieri selvaggi e Le colline hanno gli occhi.

Scritto, diretto e musicato (insieme a Jeff Herriott) da S. Craig Zahler, Bone Tomahawk (1.8 milioni di dollari, girato in 21 giorni) è un primo film ma non arriva “dal nulla”. Zahler (1973, Miami), infatti, ha già scritto parecchie sceneggiature (opzionate ma non ancora prodotte, ad eccezione di Asylum Blackout, una coproduzione USA/Francia/Belgio) e alcuni romanzi, tra cui un noir molto bello e sadico, con un indimenticabile finale nella neve Mean Business on North Ganson Street (sarà un film WB) e due western, A Congregation of Jackals e Wraiths of the Broken Land.

Allucinata, cruentissima, cronaca della missione oltre il confine di Peckinpah e Aldrich, per salvare due sorelle vendute a un bordello messicano (nelle primissime pagine del libro, una, incatenata a un letto è già senza un piede, l’altra schiava del laudano), Wraiths è la matrice da cui Zahler ha tratto la sceneggiatura di Bone Tomahawak. Un’analoga rescue mission, ma più contenuta, adatta a un film a piccolo budget.

Abile nelle descrizioni, tratteggiate a pennellate sicure e molto vivide (tra i suoi fan anche Joe Lansdale e Walter Hill), quasi già distillate per il cinema, sulla pagina Zahler è forte soprattutto con personaggi, che prende e riprende nel racconto, scavandoli a forza di dettagli e piccole scene che li rendono indimenticabili. È con la stessa cura, in una progressione naturale, che si entra nel mondo di Bone Tomahawk .

Un cimitero dissacrato da due criminali vagabondi (David Arquette e Sid Haig) è l’elemento scatenante. Kurt Russell (qui molto più carpenteriano che in The Hateful Eight) è lo sceriffo Hunt, Patrick Wilson il marito zoppo della donna rapita. Matthew Fox il pistolero dandy e Richard Jenkins l’anziano “deputy”. Per farci trascorrere più tempo con loro (senza sforare con il budget) Zahler escogita un furto dei cavalli. E il film diventa ancora più minimal - quattro uomini appiedati, costretti insieme dalle circostanze, i loro fantasmi, e il pericolo che li attende. “C’è qualcosa di molto americano in questo film, che amo”, aveva detto John Carpenter, a Torino, anni fa, presentando Rio Bravo. È quella stessa “americanità”, priva di orpelli, antieroica, quasi malinconicamente matter of fact, tarata su un comune senso del dovere, dell’onore, della decency e dello humor, che attraversa questo film e i suoi personaggi. Diversamente dagli odiosi otto di Tarantino, gli uomini e la donna di Bone Tomahawk non portano sulle loro spalle il peso della storia, del mondo e del cinema. Sono solo se stessi. È la stupenda fragilità di questa loro leggerezza che li rende vicini. Che fa sì che i loro destini ci tocchino quando Zahler (povero di mezzi ma non di idee: “The Revenant è il peggior film che ho visto negli ultimi cinque anni - vuoto, tremendo e didattico”), inscena l’incontro con i trogloditi. Violento, scioccante e matter of fact anche quello.

 

 

Published in SPECIALE - DEBUT!

Lost Themes (John Carpenter)

Saturday, 11 April 2015 12:35

Senza futuro: film. John Carpenter’s Lost Themes

Giulia D’Agnolo Vallan

Le musiche di Carpenter sono in scope, come i suoi film. Hanno la stessa ambizione spaziale. La stessa istintiva eleganza. La stessa texture erotica e quella matericità della suspense che pochi come lui sanno imprimere al fotogramma, alla fluidità di un movimento di macchina. 

Carpenter lavora ormai così raramente che la tentazione di tradurre questi lost themes in lost films - in film perduti, che non e mai riuscito a fare - è forte al punto che qualcuno ha persino provato a immaginarli: una vittima che corre inseguita in una foresta, un’altra perseguitata da un fantasma... Lo stesso Carpenter ha detto di aver concepito ogni canzone come un film a sé, composto di temi/scene diversi.  Ma questo impulso alla visualizzazione è fuorviante, dato che i lost themes sono film che lui non ha mai scritto, visto, sognato, o per cui si è battuto. Completamente astratti.

Ma, ci dicono queste undici canzoni improvvisate sulla tastiera di casa, che dietro ai titoli prevedibilmente minimal (Mystery, Vortex, Night, Fallen..) nascondono sonorità  barocche, synth-ornatissime, nella loro sensibilità retro (Bach come sempre, Morricone, i Beatles ma anche l’euforica cheesiness di gruppi come Abba o Procol Harum): sono questi i film che Carpenter (da) oggi è disposto a fare.  “Senza pressioni di sorta, senza attori che mi chiedono istruzioni, senza una troupe che mi aspetta, una sala di montaggio in cui andare, una data d’uscita in sala”.

George Romero sta finendo un ciclo di graphic novels per la Marvel, Empire of the Dead. La prima graphic novel di Walter Hill, Balles perdues, è appena uscita in Francia. Ma se i loro scivolamenti di medium riflettono un contesto in cui per autori come Hill, Romero o  Carpenter è sempre piu’ difficile fare film, lo scivolamento di Carpenter sembra rispondere a una necessità fisiologica più profonda, interiore.

Come succede nei suoi ultimi lavori, anche i momenti migliori di Lost Themes sono quelli - sempre più rari - di abbandono. Quel senso di lasciarsi andare quasi fisico, che anima per esempio la corsa d’inizio di Pro-Life (ripresa nell’apertura di The Ward) la maggior parte di Vampires e la sequenza della possessione in Ghosts of Mars... Spesso sono i riff alla tastiera di suo figlio Cody (cui si devono alcuni brandelli del disco) e la chitarra lancinante del figlioccio del regista, Sean Daniels, che scompigliano la (dis)attenzione della “maniera Carpenter” e lo trascinano - dietro alla coolness delle superfici - dentro quell’identificazione totale con il cinema e la sua fattura, che sta al cuore del romanticismo schivo, “americano”, che attraversa la sua opera.

Sono momenti di gioia, effervescenti. Commoventi, esagerati e - lui sarebbe d’accordo - quasi “ridicoli”.

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