Corrispondenza angelica
Bruno Roberti
Gli angeli dal suono della sua voce conoscono l’amore di un uomo , dall’articolazione del suono riconoscono il suo regno, e dal senso delle sue parole il modo di conoscere. (voce femminile fuoricampo in esergo al film)
Il microfono è in campo. Dall’alto giunge volando il microfono, una bambina seduta, come in Balthus, guarda certa-incerta verso di noi. “Suono!” Prima del cielo e della terra, solo le onde sonore. Uno sfrigolio, un luccichio, una nebulosa (la frittata in un pentolino, forma divinatoria), come ab initio, caosmico, della Comedia de Deus. Il film di Rita Azevedo Gomez divarica le distanze, gli echi, appunto le corrispondenze, per compitare una rinascita, ritessere le voci di due poeti lontani e ridare vita, nell’arco “in cielo” dell’epifania del suono, a una parola che mentre “manca” , mentre si pone continuamente fuori campo, da luogo, in presenza, al farsi dell’immagine, anzi al suo moltiplicarsi in intarsi e iscrizioni di schermi, in “angoli tra luce e buio”, in rimbalzi vocali e immaginali. La lingua degli angeli. Lingua di nascita e di scissione, in cui il nostro Altro si pone come corpo sottile, si pone accanto, aleggiando a mezzaria. Lingua animale, corpo e lingua, possibilità di filmare il corpo poetico con il suo peso leggero che ogni volta occupa uno spazio diverso, e oscilla sospinto, e invisibile. Come quell’altalena che viene mossa da un vento che scalpita. Ai quattro angoli del mondo, come i cavalli del vento.
“Mi viene in mente la sentenza di quel padre Malagrida, messo in esergo da Stendhal al capitolo XII del Rosso e il nero. “La parole a été donnée à l’homme pour cacher sa pensée”. Non lo intendo solo nel senso che grazie alla parola egli può nascondersi agli altri ; ma che si nasconde, volente o nolente, anche a se stesso. Penso che il Doppio sia nato da questa divaricazione. Con la maschera, con le figure del discorso, col fatto stesso di autorappresentarsi (mentre all’animale sarebbe bastato essere). Mentre ci estrania al corpo, all’animale, alla semplicità dell’essere, lo sdoppiamento prepara i viaggi estatici. Qui morire significa rinascere.” (Vincenzo Loriga L’angelo e l’animale )
Nel film le voci e le parole di De Sena e De Mello, la loro corrispondenza, rispondono a un tra-guardare, che è anche un tra-guardo diffratto e sdoppiato nel tempo e collocato-ricollocato nello spazio. In quello spazio che, come nei film di Pollet, corrisponde alla “dimora inquieta”, con il suo “tavolo su cui poggia l’enorme mela rossa, nella stanza sul mare”, con le porte e le finestre che si aprono e si s-chiudono su altrettanti schermi. E gli schermi sono i battiti d’ala di un angelo che vola da una parte all’altra. Tra i soffitti e i pavimenti. Tra gli arbusti portoghesi di un orto botanico e le onde dell’oceano che sbattono sulle rocce brasiliane o sulle spiagge californiane (dove de Sena si esiliò), laddove, città degli Angeli, i piedi alati osano, esitano, sfiorare la terra. A volo d’uccello, come sul “miradouro” che a Lisbona è stato dedicato, a picco sull’amato mare-fluidofiume, a Sophia. Massima distanza e massima prossimità, dis-giunzione che è “l’intensità del vuoto e l’intensità della comunione”. Lotta con l’angelo fino all’alba, presso la scala su cui vanno e vengono le anime, vita delle immagini che sarebbe “la lotta d’immagini che non vogliono morire”. Ecco appunto la metamorfosi, o metempsicosi, in cui, da un punto sempre diverso, l’immagine rinasce a se stessa, proprio nel momento in cui il suono si accende come un attrito, un toccare la luce improvvisa che scaturisce dall’ascolto dell’aria intorno, dal captare, in presa diretta la grana di quella voce. Lingua degli uomini, lingua degli angeli, lingua degli uccelli. Ascoltiamo: “Gli uomini erano angeli e sono diventati uomini. Gli uomini erano uomini e sono diventati animali.” Gli animali tornano ad essere angeli, nelle costellazioni, nelle corrispondenze. Nelle voci che si rispondono, nelle lingue (francesi, portoghesi, spagnole) che sobbalzano ogni volta che il microfono entra ed esce dal campo. Sono proiezioni del destino, sono trasparenze imbricate le une nelle altre a lasciar vedere, intravedere, intrasentire. E sembra non ci sia luce, eppure una piccola luce luccica, “una piccola luce e tutte le lingue del mondo”. Nel silenzio si sente lo scalpiccio del cavaliere che monta i cavalli del vento. Un cavaliere che (come avviene nel Fisico Prodigioso di De Sena, e come viene assorbito nel-dal film) può fermare il tempo e rendersi invisibile, proprio perché parla con gli angeli, mentre cadono, e quindi compone “diablerie” insieme agli angeli che cadono come stelle, durante la loro caduta, la “scorribanda” del demonio, che è come l’aleggiare di quell’angelo. Qualcosa da guardare da lontano, da “tra-guardare”. Un indotto nomadismo, va e viene di una voce. Che già filmò, in quanto voce di Sophia, Joao Cesar Monteiro nel 1969. E che ora ritorna, attraverso il tempo. Laddove si mettono le ali per innalzarsi lungo le spire serpentine (come i boccoli e la collana viva di Simonetta Vespucci nella tavola di Piero di Cosimo) del labirinto nelle nostre vene, dove il sangue parla lungo i secoli, e vaticina. Presiedendo quell’Apollo Delio, quel Minotauro, quegli Idoli Cicladici che appaiono nel film come d’improvviso. Pietre che parlano, pietre di luce che emettono immagini, per l’alchimia del verbo cui De Sena si richiamava, scrivendo anche lui la sua Pedra Filosofal. Oppure, tra cielo e mare, ponendo in esergo al suo Fisico prodigioso le parole di Rimbaud, fanciullo divino, che reclama l’orina dei fanciulli (immagine alchemica dell’oro filosofale): “Je pisse vers le cieux trés haut e trés loin-avec l’assentiment des grands héliotropes”.