"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Jean-Luc Godard

Thursday, 06 December 2018 00:13

Le livre d’image

Lorenzo Esposito

Non è la prima volta che Jean-Luc Godard per parlare d’immagine parla prima di tutto di ciò che attiene al tatto. Non proprio di un ‘occhio tattile’ tuttavia, nel lavoro di JLG ci possono essere grafi, grafie, tavolozze Fauves rinvenute direttamente nel ventre dell’immagine - ma mai metafore. No, semplicemente Godard parla delle mani. Lang Rossellini Hitchcock. In rapida successione. Mani. Non solo per voltare le pagine del livre o per ‘scrivere’ l’image o per scorrere la pellicola (anche leccarla come Jerry Lewis, parte della storia fisiologica del tatto è nella lingua, nella saliva). Mani come condizione primaria dell’umano. “La vraiè conditíon de l’homme: penser avec ses mains”.

Invero, nulla di meno pacifico. Le dita sono cinque e la composizione origina risultati non preventivabili. Da un lato l’archivio e il suo sistema morale, dall’altro la dannazione di chi decide di intraprendere il viaggio tra immagine e parola senza dire stronzate (“pour ne pas faire caca”/”no bullshit”). Un incubo in una notte di tempesta – i fatti, gli eventi reali, visti come esperienza non di ciò che si fa, ma di quello che non si fa (JLG lo ripete come un mantra durante la scorribanda via face-time che ha scosso dal suo torpore il festival di Cannes e che in mancanza di meglio chiamiamo ancora conferenza stampa). Nulla a che vedere con la parola tanto in voga fake, al contrario un tentativo estremo di maneggiare la bellezza attraverso l’apparentemente dimenticato romanticismo della menzogna come passage per la verità (Benjamin, n’est-ce pas?).

La sequenza di Johnny Guitar, con la sua semplicità e ambiguità al cubo, giunge come un lampo: l’amante dice all’amata dimmi delle bugie, cioè delle verità in forma di menzogne, ripetimi le tue frasi d’amore con l’odio di chi sa di mentire perché dice la verità. “La guerre est lá”. (È da poco scomparso Philip Roth che amava ripetere una cosa come capire la gente non è vivere, vivere è capirla male). Godard, che molto tempo fa aveva rifatto la scena in Le Petit soldat, teneramente ce la mostra. È il primo capitolo di Le livre d’image: Remakes. Che, appunto, diventano rim(ak)es. Ma il poeta è il primo a sapere l’abisso di inconciliabilità contenuto in ogni rima, un secondo un’ora un giorno corrispondono a un giorno una vita l’eternità. Seguono tortura, punizione, l’innocente che paga per colpe non sue. Questo succede a chi cerca di decifrare l’imagine, tragicamente mette altra realtà nella realtà. Come se nulla fosse Godard giunge qui subito al punto cruciale (e subito, alla sua maniera, se lo mette alle spalle): “nessuna attività diventa un’arte prima che la sua epoca, il suo tempo non sia finito, e allora scompare”. Per questo si può non smettere di chiedere che cos’è il cinema, che forse non è neppure ancora un’arte, e che ha questa capacità di giocare a scomparire, di saltare a piè pari epoche e tempi inventando continue sparizioni. Ma ciò non toglie l’orrore delle leggi, la fine della democrazia, la fine del sogno di riscatto degli umiliati e degli offesi.. Ciò non toglie questa Europa senza virtù né futuro..

Così la prima parte dell’ultimo Godard, Le livre d’image, che il Festival di Cannes, senza saper bene che fare, onora della palma d’oro special a conferma lampante di genericità e medietà dei festival tutti. La prima parte, ovvero sotto gli occhi dell’Occidente. Il film è da subito e fino alla fine un trattato di stereofonia, che delocalizza lo spazio uditivo attraverso il rincorrersi e incrociarsi e sovrapporsi delle voci delle frequenze dei volumi (mix oltreumano che ha la follia e il desiderio di un’ulteriore salto mortale, visto che JLG e la sua équipe lo hanno pensato appositamente per la sola sala Lumière di Cannes, e ora sono al lavoro per rifarlo daccapo e presentare il film ogni volta come un happening – “in qualche piccola sala di cultura o in qualche circo” dice ironicamente il già citato Godard versione face-time). E che diffonde l’energia pluri-auricolare sull’immagine stessa - estratti da film propri e altrui, brani anonimi cine-tv e Internet, quadri, grafie, illustrazioni, libri, pennellate, sbavature – scegliendone sempre la versione peggiore, sgranata, decomposta, bruciata dal sole, colata a picco, non più supportata dal supporto, smagnetizzata, graffiata, sradicata. Spesso lo stesso frame, la stessa immagine viene modificata in asse, sformata deformata riformattata, 4:3 e 16:9, cinema tv cinema tv cinema… (non c’è lo spazio necessario, ma andrebbe pensata la vicinanza di Le livre d’image a un film come Vent d’est, non solo per la struttura, lo vedremo, bipartita e la trama, proprio la nervatura tragica e politica insieme, ma per quest’opera di continuo auto-sabotaggio del film e dell’immagine e del ruolo stesso del cineasta, con cui Godard sembra voler ritrovare nell’apparente disfunzionalità del corpo del film il corpo vivo, se è ancora da qualche parte vivo, dello spettatore, chiamato non certo a decifrare la folla di segni parmi nous, quanto piuttosto a liberarsi della propria normatività di decifratore o interprete, e invece fare esperienza della continua disfatta dell’immagine per giungere a essere un’immagine. Da cui il famoso “non è un’immagine giusta, è giusto un’immagine”, che più recentemente Godard ha chiosato spiegando che “i miei film si inseriscono in una corrente della sinistra europea che vola di disfatta in disfatta, in un bello slancio romantico”. Romanticismo che appunto diviene ora il perno di Le livre d’image)…

Fino al capitolo 5, non a caso intitolato La Région Centrale, vertigine che apre al secondo lunghissimo blocco tutto dedicato al mondo arabo, o meglio alla “heureuse Arabie”. Ma intanto l’omaggio a Michael Snow - a quella sua sublime e interstellare esplorazione dello spazio capace di lanciare il tempo oltre stesso, di spalancarlo, squarciarlo dall’interno - ricongiunge il film al suo inizio: quando il tempo è fuori sesto, quando manca a se stesso, quando non abbiamo più nulla da aspettarci, “ci sono cinque dita, la mano”. E le mani bisogna sporcarsele e tornare a parlare del mondo arabo, nucleo da sempre decisivo e non certo per la tragedia che intende finire di stringerlo nella morsa (uno dei film più profetici di tutta la storia del cinema è e resta Ici et ailleurs, firmato da Godard con Anne-Marie Miéville a metà degli anni settanta). Il mondo arabo che non è l’Islam, sia detto in principio. Principio gioioso, appunto. Mentre il cristianesimo è il rifiuto di conoscersi, “la morte del linguaggio”. Qui lo sfogliare il libro dell’immagine araba (da Edward Said a Pasolini all’orrore attuale) è per Godard un modo per spogliarla della violenza con cui viene rappresentata, vista solo politicamente o confusa col Medio Oriente, perché in fondo né il mondo né i mussulmani sono interessati agli Arabi. “Les arabes peuvent-ils parler?” Gli arabi possono parlare? Non so in quanti oggi abbiano la stessa lucidità e insieme tenerezza di porsi questa domanda come fa Godard. Di ricordarsi come questa voce araba, fatta di paesaggi e colori d’infinita intensità, ha saputo e sa dire cose giuste, trovare il volume giusto per dirle. Proprio questa è l’immagine che si cerca di cancellare e di evitare che accada, è un modo per prolungare il giogo. Che orrore.

Ora il film, Le livre d’image, è un fiume in piena, una colata di marca strettamente pittorica e musicale, dove Godard sembra voler dire che è solo l’arte del contrappunto a produrre una melodia. Le livre d’image non crede nella musica d’accompagnamento, ma nell’interruzione, nell’eco, nella deflagrazione, nel viaggio coraggioso fra le macerie (l’Aldrich di Kiss Me Deadly appare quasi subito e anche il Tourneur di Berlin Express). Uno dei pochi, Godard, ancora a credere che il conflitto non è fatto solo per distruggere. Anzi è qui che un’armonia possibile va ricercata. È anche, questo passaggio, lo sprofondamento più romanzesco del film. Il sogno. Le mille e una notte. La città di Dofa. Esempio immaginario che riporta l’immagine alla sua realtà politica. “La scusa d’ogni ambizione politica è quella di fingere di sacrificarsi per il bene del popolo quando il popolo non ha chiesto nulla se non di vivere in pace”. Ma soprattutto, come diceva Brecht, “solo il frammento porta il marchio dell’autenticità”. Siamo alla corsa finale, una delle più commoventi mai viste al cinema. Ci vorrebbero libri interi di immagini, ma di nuovo il cinema sembra capace di questo paradosso fatto di fulmineità e durata. Godard parla e la sua voce si spezza, la cede a Anne-Marie Miéville, la riprende rauco, tossisce. In gioco c’è il soggetto stesso, la necessità di una rivoluzione (“il doit y avoir un revolution”). Sapere che quando si parla a se stessi si parla con la voce di qualcun altro che si rivolge a noi stessi. E se questo è il segreto dell’immagine, allora le nostre speranze, le speranze di una vita, resteranno. Resteranno immutabili. Come la sequenza del ballo tragico dionisiaco romantico da Le Plaisir di Max Ophüls che chiude o riapre le livre d’image.

 

Questo testo è apparso in prima battuta su Alfabeta2 il 27 maggio 2018.

 

 

Otar Iosseliani

Wednesday, 13 July 2016 13:13

Un incendio visto da lontano

Lorenzo Esposito

Che l’indolenza trasformata in intensità, ovvero non esattamente il suo modo cinematografico, ma proprio l’attitudine, il carattere di Otar Iosseliani coincidano oggi con un intero mondo in via di sparizione (o peggio che è diventato normale eludere), è al contrario, e con amabile giustezza, luogo centrale da cui si dipartono i fili invisibili di un’opera che più che al filmare si addice all’ordito celato di un arazzo. L’estrema e olimpica auto-ironia riveste le pareti dell’immagine con un tessuto profondo: fare cinema significa prima di tutto cancellarne le tracce. Non sono altro che contrappassi e canti d’inverno i film certo, ma il punto è che raggiungono questa posizione alta, solo defilandosi, armeggiando, fra un capitombolo e l’altro, nei precipizi delle pratiche basse, come un’orchestra malmessa che però dona e custodisce magnifiche illusioni (soprattutto se sbaglia note e accordi), fra uno specchietto per le allodole e l’altro, l’ennesima caccia alle farfalle, l’apertura di porte magiche che scoprono giardini segreti sull’anonimo muro cittadino.

Sarà per questo che infine l’ultimo film di Iosseliani Chant d’hiver richiama così da vicino (e non solo per l’andirivieni parigino) il Cortazar di Rayuela, seppur con meno propensione alla destrutturazione, perché per Iosseliani le strutture e i loro mulinelli intestini, sono già sempre di per sé sintomo di una ricaduta positiva, o di una sparizione, o di un mancamento, gioiosamente conversando così l’invisibile con se stesso. Ma in comune certo c’è la bella possibilità, offerta su un piatto d’argento (entrambi ambiscono a fare i camerieri, così starebbero tutto il tempo in un bar) al lettore e allo spettatore, di smettere di leggere e di fare a meno di vedere. Va bene se vi attenete a quest’ordine dei capitoli, ma da questa pagina in poi inizia un altro romanzo anche per i capitoli che avete già letto. Seguite pure la deriva da immagine a immagine, perdetevi, disorientatevi, ma attenzione è possibile che il film, più che accumulando versioni, stia sottraendo varianti e invitandovi laconicamente a una forma di cecità gloriosa e goliardica.

In ogni caso per Iosseliani in particolare la domanda riguarda la fattibilità del cinema stesso, o meglio la sua consacrabilità all’incompiutezza del mondo. Non si tratta di restituirne il reticolo prodigioso e segreto di casi e casuali ricadute e sollecitazioni, ma proprio di ricostituirne punto a punto l’invisibilità che gli è propria, sottrarlo anzi a questa stessa consapevolezza di ineffabilità (soprattutto quando sempre più spesso scambiata per bulimia del tutto visibile in un sol colpo), e aiutarlo a restare esile, dinoccolato, disincantato, sconnesso. E questo vale anche per il cinema: né un’arte, né una tecnica, ma il documento di quello che sempre, quando un’immagine sembra più aderirgli e aderirci, passa invece velocemente all’inesistenza. Anzi Iosseliani non fa altro che ossessivamente cercare di trattenere l’immagine appena abbandonata nell’immagine successiva. Diceva anni fa a proposito di La chasse aux papillons (anticipando così la sequenza mirabile in Chant d’hiver della porta che si apre su un’altra dimensione in una strada qualunque di Parigi): “L’aprirsi di una porta è l’entrare in un mondo che si richiude, e dietro la porta c’è sempre un segreto. La porta è una sorta di geroglifico1”. Filmare il luogo in cui una cosa che appare, scompare... Sapere che se tutto passa, non è detto che non si possa mantenere una posizione favorevole nella girandola del consumo (che ridere il Capitale che invita al consumo, quando è proprio il consumarsi d’ogni cosa la bellezza terribile di questo mondo)…

Per restare sempre a Renoir e all’apertura delle porte, Iosseliani ha sempre rispettato la regola del gioco (dove l’unica regola è non avere regole), ma ha fatto un passo in più, obliquo come una capriola, quando ha espresso il desiderio di cancellare le tracce anche dell’inatteso colpo di vento, evocato da renoir, che giunge a mettere a soqquadro un set. Attenzione però, questo non significa incuria o imprecisione, al contrario è ricerca della massima concentrazione e intensità, laddove tuttavia si è consapevoli che anche un evento concentratissimo disperde la sua intensità nel momento stesso in cui avviene. Ecco perché nei suoi film tutto sembra il materializzarsi di una fuga, un fugarsi stesso degli avvenimenti, un accelerato dileguarsi di situazioni e personaggi proprio nel momento in cui si accumulano e si aprono a spettri ulteriori di possibilità. Che cos’è il cinema? Non c’è niente da fare, l’incendio va visto da lontano.

 

1 A. Pastor, D. Turco, S. Paba (a cura di), Conversazione con Otar Iosseliani, in Filmcritica n. 429, novembre 1992. 

 

 

Terrence Malick

Wednesday, 13 July 2016 13:03

The world of time

Andrea Pastor

Da quale zona di luce e di ombra proviene la voce, la parola immagine del cinemaparlato di Malick, quella che, nel tempo, di filmalbero in filmalbero, si è moltiplicata, proliferando, pluralizzandosi a perdita d’occhio, diffondendosi nello spazio sempre più profondo? Difficile iniziare e finire di iniziare a rispondere, specie quando questo interrogativo si pone a poche ore dalla scomparsa di Cimino e Kiarostami, nomi sguardi umili e potenti, anch’essi costruttori sublimi non di arte o tecnica ma di filmmisteriosamenteparla(n)ti. Doloroso ma anche riscaldante e generoso l’inizia, quasi sokuroviano, proferito, come ultima parola, al termine del viaggio, senza forse più possibilità di elegia, Knight of cups. Potrei rispondere dall’altrove. Reinizio. Come descrivere, come identificare l’origine di una voce che è sempre altrove, di una parola ad altissima definizione, incisa, scolpita, più che narrante, o autonarrantesi, nell'indefinito spazio over o off, disciolta nel vento, nel fuoco, nei cieli, nella terra, nelle immagini di una natura sempre (in)contaminata, nei fulminanti raccordi, nei liquidi e densi movimenti di macchina, nei flussi magmatici, nel respiro, nelle carni sanguinanti dei campi di battaglia, nelle pelli desideranti e irrimediabilmente condannate alla solitudine, alla loro natura di segni puramente schermici, alla loro flagranza immaginaria, fatta lievitare con forza dal nero, vera sorgente da cui si origina la visionarietà di Malick, la stessa che, al sopraggiungere di ogni singola opera, finge di dissolversi, magari per lunghi anni, per poi letteralmente risorgere, come negli ultimi tre filmonde, filmellisse, volatili ma più che mai brucianti, depositati, vibranti, tra quelle che però sembrano essere le stesse, acquee, forme solide di un pensiero insostenibile, che si consolida e rigenera, ogni volta, più misteriosamente che mai? Le domande si sono infittite e concentrate in un unica lunghissima interrogazione. Inizia, inizio a provare a rispondere. Dalla prima inquadratura di Badlands all’ultima immagine del primo trailer ufficiale del suo prossimo film Imax che verrà, il sole è nero, e la parola e l’immagine malickiane sgorgano da una luce, da una natura troppo sublime, e dunque tenebrosa, e ciò che viene mostrato è il mistero dell’immagine stessa, l’indescrivibile, il non rappresentabile, il fuori campo che non può che essere assoluto, che si può solo presentire, nelle forze contrastanti del bene e del male, della vita dell’amore dell’odio dell’edipo, della morte, le stesse che hanno nutrito e nutrono, per sempre e da sempre, l’immaginario hollywoodiano, definitivamente, però, dopo Malick, un po’ più spento, non più spendibile. Tutte le parole immagini del suo cinema sono ciò che si può ancora stravedere quando tutto è già stato compiuto, l’olocausto, la genesi, il genocidio e la ‘definitiva?’ resurrezione dell’umano.. Come un figlio di Godard, di Duras e Resnais, ma anche di Kubrick e di Saul, Malick ha visto l’innominabile, il non umano, ne è rimasto accecato. Le parole le cose che vediamo e le immagini che udiamo, in ogni suo film, sia quelle così spesso emergenti dal buio schermico, sia quelle apparentemente over o off, che teorizzar si voglia, sia quelle solo finzionalmente sincrone, fingendo di parlare delle genesi della vita, di raccontare melodrammi, di ridare forme trasognanti, in eterno stato di dormiveglia, a generi, spazi e tempi e linee rosse che odorano più di salò che di napalm, senza più tracce di orizzonti (in)gloriosi, a storie d’amore e di sguardi impossibili, polverizzati e fatti risorgere, come identicamente altri da sè, a quotidiani familiari bucati dal cosmico, di fatto sono sonimagesconsciences al lavoro e lavorate, non solo diegeticamente, dalla catastrofe, dal collasso del sentire, dal tempo di una Storia aberrante che può solo risuonare a intermittenza e totalmente nel fuori campo, nell’irrapresentabile, nell’interdetto, tra le pieghe di documentaristiche finzioni che sembrano tutte condensarsi e rapprendersi in un un’unica plurima domanda, rivolta a se stesse e allo spettatore: “Ti Mi ami? Nonostante tutto il dolore e l’incanto che ti faccio provare, fino allo spasimo, rischiando al massimo col mio occhio tagliato nel quale forse ti rifletti? Credi nell’utopia di un nuovo universo e di una nuova immagine, le senti come possibili e reimmaginabili? Te la senti di rifondarti come soggetto che guarda e ascolta e riscrive un altro sguardo che potrebbe anche essere ancora il tuo? Sei disposto a (ri)vederti da vicino come natura vivente e (in)differente che non c’è più ..ancora?” Con una aggiunta: “Se sì..(re)Inizia”.

 

 

Philippe Garrel

Wednesday, 13 July 2016 12:52

Matrici

Vanna Carlucci

Feu aux poudres (Fuoco alle polveri) è il titolo di uno dei due capitoli che compongono La jalousie. Dare Fuoco alle polveri sembrerebbe rinviare a più interpretazioni: all’atto incendiario di rivolta, quella che ha attraversato nel ’68 le strade di Parigi e che Garrel ha più volte raccontato nel suo cinema (pensiamo a Les amant reguliers o al ritrovato Acte 1 che ha preceduto guarda caso la proiezione de L'ombre des femmes a Cannes); al fuoco alchemico e di combustione e conversione della materia; all’atto stesso di proiezione delle immagini, cono di luce che buca e accende l’oscurità: dare fuoco alle polveri significa anche riporre l’occhio lì dove la memoria ha creato delle falde, apnee interminabili e sospensioni fuori tempo di corpi che tornano da un luogo remoto e che sfuggono ancora dalle mani.

Il cinema garrelliano è un circolo vizioso di ritorn(ell)i autobiografici, di immagini già viste, fantasmi che si riform(ul)ano in un corpo, di mani che si toccano come echi di mani del passato, ma qui tutto si mescola in un angolo buio della memoria per sfaldarsi e ricompattarsi di nuovo e per essere ogni volta diverso. Alchimia appunto, polvere che vortica su se stessa fino a scivolare in luoghi in cui non si è guardato mai. Ciò che resta sono le pareti scrostate degli interni, l’eco di baci rubati per le scale; il vuoto riempie camere, cinema, strade e certe notti in attesa: sono spazi e luoghi interrotti, territori d’esilio, interstizi e buchi di serratura (pensiamo alle prime immagini de La jalousie) attraverso i quali il buio della pupilla riformula certe visioni perdute: stanze come scatole, scatole come forni alchemici, come film. Un disegno apre i contorni su visi e corpi e nella distanza tra un atto e uno sguardo, tra un bacio e un addio, nel solco di questo spazio che separa il bianco dal nero, gli amanti sanno già di essere fantasmi.

L’immagine claustrofobica dell’amore stavolta non precipita in macabra ossessione, ma sembra quasi che l’ultimo Garrel (quello de La jalousie e de L'ombre des femmes) vada oltre l’imperdonabile perché il cinema in fondo è memoria andata in pezzi, pezzi che sono immagini, cicatrici interiori e, allo stesso tempo, l’amore è luogo così irrisolto da lasciarci sospesi ancora nel vuoto: frammenti di vita proiettati continuamente sullo schermo, resistenza della memoria che registra ricordi (quelli del padre di Philippe) che si sfaldano e si ricompongono continuamente per diventare immagine deformata, pura finzione. Ne La jalousie Louis (figlio di Philippe) incarna il fantasma di suo nonno (Maurice) mentre ne L'ombre des femmes la cinepresa di Manon e Pierre, le pellicole conservate in archivio che fanno incontrare Pierre ed Elisabeth, scandiscono questo rapporto sentimentale tra cinema, vita e memoria: viaggiano l’uno accanto all’altro in un dialogo che li attraversa e, incrociandosi, li sfiora. Come i corpi urtano, si toccano, si amano, si tradiscono e ritornano così Garrel fa dell’immagine la messa in scena del (proprio) desiderio, più reale della realtà stessa, una ripetizione mai uguale a se stessa da rendersi sempre nuovamente possibile.

C’è una consapevolezza nuova: una certa leggerezza attraversa la pellicola e il sentimento diventa peso incorporeo; l’orgasmo di una donna che fa l’amore in chissà quale appartamento attraversa, nel suo moto arioso, il cortile interno di un palazzo ed entra di notte nella stanza vuota di Manon, dove la solitudine diventa immota presenza delle cose. Da una finestra spalancata (ipotesi di una veduta, sguardo che si dilata) non vediamo l’amore ma soltanto un’idea proiettata per aria, negli angoli bui delle pareti, voce fuori campo e fuori visione perché il cinema è questo rovescio senza fondo che nasce “in silenzio sotto lo sguardo”, un corpo sconosciuto - dice Deleuze - che abbiamo dietro la testa, “nascita del visibile che ancora si sottrae alla vista”. Eccolo il Vuoto del suo filmare, si tratta di tendere i sensi e guardare altrove, perché “vedere è avere a distanza”, dare atto al ricordo di mostrarsi li dove “la retina è cieca nel punto in cui si diffondono in essa le fibre che permetteranno la visione”(Merleau-Ponty 1969, p.260). Sia l’amore che il cinema diventano allora matrici (athanor alchemici) entro cui formare storie e immagini sempre nuove, combustioni che si sprigionano da un abbraccio (vedi l’ultima immagine de Les ombre des femmes) dove il morso al collo di lei diventa il bacio di una riconciliazione, l’abbraccio perfetto di una storia imperfetta o da una stretta di mano dove il buio in un cinema ci dice che sì, è possibile (ancora) amarsi nel vuoto.

 

 

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