"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

The Florida Project (Sean Baker)

Sunday, 23 July 2017 01:08

L’orrore del castello magico

Giorgia Cacciolatti

Chiuso in un cassetto l’iPhone 5s di Tangerine, Sean Baker sbarca alla Quinzaine des Réalisateurs con The Florida Project, assolata straziante istantanea del sottoproletariato americano nell’era del selfie, colta in un motel della scialba periferia di Orlando alle pendici del castello di Disneyland, che, suo contraltare, si trasforma nella sua diretta proiezione capovolta attraverso lo sguardo incantato della piccola Moonee  e dei suoi compagni di avventure.

Ci si immerge nella frenetica e improvvisata routine estiva di Halley, di appena ventidue anni, e della sua bimba di sei, una quotidianità conquistata con mezzi rocamboleschi e al limite della legalità, per trentotto dollari a notte. Tutta l’immagine è un’esplosione di colori: le pareti, le porte, le magliette dei bimbi e i tatuaggi delle mamme giovani e belle, il cielo blu cobalto della Florida riflesso nella piscina comune del Magic Castel Motel.

Ci si diverte e ci si culla nel ritrovare la bellezza di giochi dal sapore antico, di bimbi che privi di mezzi si affidano alla sola immaginazione e all’ambiente che li circonda e che, costretti, sanno ancora plasmare; tutto il complesso del motel diventa roccaforte da espugnare, sempre cercando di non farsi scoprire dal guardiano del castello - interpretato da Willem Dafoe in uno spaccato di dolcissima umanità. Ci sono gelati ottenuti al centesimo e condivisi in tre, corse verso i campi, piogge di selfies e di boccacce, compleanni improvvisati insieme a fuochi d’artificio raggiunti in autostop, festicciole notturne in piscina di donne che, ancora bambine, sono diventate mamme. Un susseguirsi di immagini screziate da cui trapela una gioia malinconica e che non si colloca in questo tempo e in questo spazio, un’eco che trascende quel mondo sociale e unidimensionale di cui si è ormai misera e costernata riduzione, sorrisi risvegliati dalla memoria di un luogo che sembra - ed è - perduto.

Quella di Baker è però una dialettica di chiaroscuri, di immagini ed emozioni contrarie disposte in scala ascendente, ed è un attimo dallo svelamento di  quella realtà che pretende e ottiene di essere sovrana, di cui ci eravamo dimenticati. L’illusione si infrange in schegge di immagini che stringono lo stomaco, così come il dramma umano si determina socialmente. La Disneyland del Magic Moon Motel si trasforma nella Dismaland di Bansky e diventa teatro degli orrori - di sfratti, prostituzione, assistenti sociali e urla - in un copione che prevede la frattura definitiva di questo già mutilo nucleo familiare, l’inevitabile separazione degli unici suoi due membri.

Ma è qui che avviene il miracolo, qui la catarsi purificatrice. Alla fine, gli occhi e il cuore così turbati dello spettatore accompagnano la fuga della bimba in lacrime; Moonee però non corre per scappare come ci si aspetterebbe, e a spingerla così veloce è la sola paura di non poter dire addio alla sua amica del cuore. Sono lì, due bimbe che si guardano e piangono mentre su di loro precipita inarrestabile il terribile mondo dei grandi, e la risposta è di nuovo una corsa, verso la vera Disneyland, per mano, già disperatamente consce a soli sei anni della necessità del senso del ricordo in un mondo che sa travolgere dalle fondamenta ogni cosa. La camera a mano insegue le due piccole fatine, Jansey e Moonee, che volano via verso il Castello.

 

 

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