Vivere e morire a Manzhouli
Hu Bo è morto, viva Hu Bo. Facile ora, dopo il tragico suicidio a soli ventinove anni del regista di uno dei film già più stupefacenti dell’anno, scorgere nell’accidentata lavorazione e nella guerra con i produttori (galleggia da qualche parte, altrettanto bella, una versione di due ore invece che quattro, intitolata Manchurian Circus e in bianco e nero), il dato scatenante. Se non fosse che invece è già tutta interna al film la tensione a strapparsi via dalla terra, a sradicarsi dai luoghi sconfinati dove si è confinati, col desiderio di un salto mortale, la ricerca del punto più alto dove spiccare il volo. Piani sequenza, vuoti a perdere, elettricità che manca e che scorre fra i personaggi, salti dal balcone di casa, violenza, ricatto. E poi la decisione, quasi disneyana, del viaggio. “Dicono che c’è un elefante in Manciuria nella città di Manzhouli che sta fermo lì senza muoversi, le persone accorrono per vederlo, lo infilzano con le forchette, ma lui sembra disinteressarsi di tutto, non mangia, non beve, forse gli piace solo stare seduto lì”. L’elefante kafkiano verso cui volgere quel che resta di umano in un’umanità esacerbata, incattivita. Insomma un’immagine, sognata e trasognata, pesante come un elefante seduto e immateriale come un elefante che nega la sua stessa vita. Qualcosa di aereo che si oppone al peso e alla sporcizia della città cinese industriale lontana e senza nome, che sferraglia lavori in corso e spazzatura e ostili alterchi senza interruzione. Si viaggia verso un’immagine. Non importa come, non importa chi. Il gruppo, già smembrato, si forma secondo la volontà implacabile del caso, oppure caparbiamente convinto che il caso non esista (indovinate in quale delle due posizioni è il produttore e in quale il regista). Quattro personaggi giunti al capolinea ancora prima di cominciare che salgono su un treno il cui viaggio inizia dall’ultima stazione. Intorno due suicidi, un omicidio. Il mondo che cola a picco.
Morire per un film. Morire per un primo film. L’unico. In modo che resti unico. Quante altre volte nella storia del cinema? Il grande Gennadij Shpalikov, lo sceneggiatore del capolavoro di Kuciev Ho vent’anni (ovvero Bastione Il’ic), e regista di un film assurdamente bello e simile a An Elephant Sitting Still, con al posto dell’elefante la Luna, l’immenso Una lunga vita felice (1966). Per intraprendere il tragitto estremo verso una sola e fragile immagine, bisogna essere indifferenti alla crudeltà del mondo come un elefante. Bisogna fare un film capace di ignorare la propria stessa evidente bellezza, stare dalla parte di chi non crede al potere o alla potenza delle immagini, metodo sperimentale per farne e farsi paesaggio interiore. E allora il viaggio diventa storia di un accecamento, movimento di macchina che si mette ogni cosa alle spalle e scarta in derive e detour quelle che si avvicendano davanti. In questo modo, stretto nella morsa di un inverno terrificante, Hu Bo sembra voler filmare uno stato gassoso, i corpi che più si ricoprono di ferite più diventano evanescenti. Di nuovo, come un elefante quando decide che è giunta l’ora e si allontana verso lande desolate per restare solo con la sua stessa fine.
Il tempo poi. Dall’alba al tramonto. Un solo giorno per vivere e morire. Se c’è qualcosa di sontuoso in questo (si è detto Béla Tarr, si è detto Jia Zhangke, ma sono solo stampelle per spiegare l’inspiegabile grandezza di un esordio che rimarrà esordio e non ci sarà un seguito), Hu Bo fa di tutto per coglierne i veleni in circolo, l’egoismo e la rabbia, il cuore fangoso di una nazione tanto vasta quanto cieca. La rete di rapporti agonizzanti e decadenti non ha tuttavia nulla di sociologico, ma è solo la base per un intricato movimento continuo fra piani e primi piani, stretti corridoi e pianure immense, la cui flagranza risponde all’oscurità verso cui tutti sembrano destinati. Come se il cinema fosse la sola speranza (non se ne sa molto, ma Hu Bo era anche autore di romanzi molto chiacchierati in Cina). E non è detto che non sia questa stessa speranza a contemplare la possibilità violenta, lo scontro quotidiano, il conflitto, l’ingaggio politico, nonostante tutto. Hu Bo è morto, viva Hu Bo.