"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
L’uomo è l’essere socchiuso.
Gaston Bachelard, La poetica dello spazio
Paura della libertà fu scritto da Carlo Levi nel ’39, quando la guerra era ormai alle porte. È uno di quei “libri dell’anno zero”, come lì definì Carlo Ginzburg: «Proporrei una piccola costellazione di libri, alquanto eterogenea, se non addirittura stravagante, che comprende, oltre alla Dialettica dell’illuminismo e al Mondo Magico, Paura della libertà di Carlo Levi, l’Apologia della storia di Marc Bloch, e perfino Une histoire modèle di Raymond Queneau. Che cosa hanno in comune questi libri? Io li chiamerei i libri dell’anno zero: sono tutti scritti tra il 1939 e il 1944, secondo prospettive completamente diverse, che però presuppongono tutte il crollo, la fine di un mondo (e in un certo senso del mondo) provocati dall’avanzata, che a un certo punto potè parere inarrestabile, degli eserciti nazisti. In questa situazione sorgeva la domanda: com’è stato possibile arrivare a questo? E se la storia ha portato a questo, quali sono le condizioni di pensabilità della storia?».
Già, come si è potuti arrivare alla rinuncia e se possibile anche allo svilimento della libertà? Innanzitutto bisogna intendersi su cosa significhi questa parola, quanto mai atta ad essere manipolata da politicanti di ogni risma o ad essere usata come slogan ideale per le pubblicità di automobili (insieme a “rivoluzione”). E se questi significati poveri e imbarazzanti non vengono messi in discussione non è probabilmente un caso. Come dice Levi, nei tempi bui vietare la libertà di parola è giusto una formalità, perché le discussioni e i luoghi che le permettono si spengono da soli, di morte naturale.
La libertà, dunque. Colpisce come in questo libretto venga espressa una concezione che sbaraglia in un colpo solo le lotte di rivendicazione insieme alla fiducia nelle leggi, così come gran parte della filosofia precedente e di quella successiva.
La libertà è prima un fatto individuale che sociale: non è una questione di contratti, di accordi o di una rappresentanza che garantisca che “la mia libertà finisce dove inizia la tua”. Ci vogliono persone che pratichino la libertà, e solo in questo modo la comunità potrà farsene espressione e luogo privilegiato. I movimenti “spartachisti”, nonostante possano suscitare un’umana simpatia, non fanno che riconfermare la divisione tra schiavi e privilegiati che costituisce lo Stato. Per questo sono destinati al fallimento, ovvero a non cambiare nulla.
Ma questa libertà dell’individuo non si compra al mercato, non è già data. Non è l’autodeterminazione del soggetto cara a Kant e razionalisti vari, ma neanche il suo completo venir meno, foglia trascinata dal vento debole del ‘900.
Queste tendenze equivalgono a due degenerazioni indicate da Levi. La prima è l’arida ragione calcolante, dimentica di ogni passione, dove ogni autentico rapporto umano è ormai impossibile. La seconda è il confondersi con l’indeterminato, che è anche bestialità e paura, fonte delle peggiori dittature.
Dov’è allora la libertà? È esattamente nel mezzo. Appartiene a quell’essere umano determinato che riesce ad accogliere in sé un po’ di indeterminato. Significa convivere con l’animale in noi senza esserne fagocitati, diventare adulti rimanendo un po’ bambini. Come dice Levi: «Non serve essere liberi dalle passioni, ma liberi nelle passioni. Poiché la passione è il luogo del contatto dell’individuo con l’universale indifferenziato, è il fecondo sonno immortale, l’eterno ritorno a un indistinto anteriore - e il problema è essere se stessi, essere liberi, in questo ritorno necessario».
Curiosamente, diversi di quei “libri dell’anno zero” parlano del dramma epocale che segnò la nascita della coscienza, dell’identità, del soggetto, al costo di un doloroso distacco da quel magma indistinto, da quella realtà dove l’io e l’altro non si distinguevano. Un percorso storico che ogni bambino ripercorre nella sua crescita.
Forse perché arrivati alla “fine del mondo” c’era bisogno di ripensarne anche l’inizio. E Levi ci dice che è proprio lì che bisogna sciogliere il nodo della libertà. Distaccarsi completamente da quel caos primigenio è condannarsi ad una lenta morte, stanco nichilismo che sopprime ogni differenza. Ma confondersi con esso è una paurosa schiavitù, foriera di idoli religiosi o statali che siano.
Essere liberi è allora camminare su uno stretto crinale, arte del funambolo. Precario equilibrio tra ragione e istinto, tra un ordine asfissiante e un disordine che distrugge.
Bisogna essere forti e allo stesso tempo aperti per accogliere l’illimitato e gioirne, senza esserne sopraffatti. Per accettare che non ci sono regole prestabilite e che il limite siamo solo noi stessi. Solo così è possibile la vera creazione, quella che “strappa” qualcosa al caos e che apre invece di chiudere. L’unico luogo da cui può sprigionarsi la pace, l’amore, l’arte e la poesia, autentiche espressioni di libertà. Perché il caos, oltre a trascinare nel disfacimento e nella perdita, è anche la fonte della creatività, della vita. Ma se invece di affrontarlo e accoglierlo se ne ha paura, ecco l’invenzione di tutta una serie di limiti - idoli, religioni, leggi, regole - per tenerlo a distanza e condannarsi alla perdita della libertà, alla schiavitù di sé e dell’altro.
L’analisi di Levi è preziosa perché non cerca risposte facili, e scava in quei meccanismi che rendono la nostra vita servitù volontaria. Ma cosa farcene? Giorgio Agamben, nell’introduzione alla nuova edizione del libro emerso dopo tanti anni di oblio, suggerisce che il “programma” di Levi fosse l’autonomia, intesa come autogestione di piccole comunità dove la schiavitù dell’animo potesse essere abolita, per essere liberi di esprimersi autenticamente e così creare. Oggi, senza sorprese, vediamo minacciati e distrutti i piccoli esperimenti di questo tipo che restano ancora in piedi, con un accanimento che dà da pensare. Forse che, oltre a generare paura, la libertà genera anche invidia? Schiavi tutti o nessuno, e il momento attuale ha scelto la prima possibilità.
Nelle pagine di Levi discorso storico e vicenda del singolo vanno a braccetto, ognuno di noi così come ogni epoca è posta di fronte a queste scelte ripetutamente. Niente è perduto, tutto tornerà, nel bene e nel male: così come non c’è la salvezza una volta per tutte, non c’è una sconfitta definitiva. La libertà e la repressione sono due poli indistruttibili che non cesseranno di risorgere, l’uno conquistando spazio a scapito dell’altro, per poi riperderlo. Le rivoluzioni falliscono, ma ci saranno sempre dei divenire-rivoluzionari, diceva Deleuze.
Di scoraggiante banalità dire che sembra – Beckett giovane – un personaggio dei suoi romanzi (sia gli impubblicabili del periodo in questione, che quelli a venire). Ma così è. Tutto comincia con una rinuncia bartlebyana: preferirei non insegnare (e all’epoca Beckett ha già una o due cattedre, già sa tutto, è questo che gli è insopportabile, e gli studenti ridono, ridacchiano, scambiandolo per chissà quale riferimento autoerotico, quando lui angosciatissimo - perché non si può spiegare un bel niente! - cerca di spiegare quello che definisce “suicidio ottico” in Rimbaud). Non si tratta di non avere riferimenti, ma di perderli. Da qui alla fine (dal 1929 al 1940, tecnicamente fra i ventitre e i trentacinque anni) impone a se stesso di riconoscersi e di negarsi in questa sola immagine: un albero sbattuto dal vento in giro per l’Europa di cui vorrebbe strappare le radici, ma il vento stesso preme sulla terra invece di scoperchiarla (ma manca poco anche a questo).
Il primo problema da risolvere si chiama Joyce/Proust. Col secondo si fa in fretta, l’analisi dettagliatissima è coadiuvata dall’immancabile scatologia, che a sua volta non è solo la bozza preparatoria all’eterna posizione Murphy a venire (corde legacci pipì feci erpes psichiatria: corpo martoriato perché questa è l’unica via per avvicinarsi a dire qualcosa sul suo spirito), ma proprio necessaria totale evacuazione: “ventre colicoso” le cui “sedute al cesso” siamo costretti a contemplare. E non si pensi che siano offese gratuite, Beckett sta parlando d’altro, qualcosa d’altro che anche Proust sa bene: scrivere, la fatica di scrivere, è la vera deiezione (i riferimenti sono continui ed espliciti lungo tutta la raccolta, uno per tutti in una lettera del 1930 in cui alcune sue poesie vengono descritte come “tre stronzi presi dal mio gabinetto centrale”). Va’ detto inoltre che il saggio su Proust si chiude con la parola defunctus.
Col primo (che Beckett chiama Penman) è un’altra storia. Lettere addirittura comincia con “Caro Mr Joyce”, sia la prima che la seconda lettera, relative al saggio che Beckett sta scrivendo su Work in progress (poi Finnegans Wake), molto apprezzato da Joyce e pubblicato sulla rivista “Transition”. E poi sottotraccia - accuse degli editori, commenti critici, assoluta autocoscienza del problema - puzza di Joyce ovunque, “a dispetto dei più convinti sforzi di dotarlo dei miei odori” (1931), e un accorato appello a se stesso un anno dopo: “Ma faccio voto di andare oltre J.J. pria di morir”. Detto fatto. Eppure. Qui non si tratta di discutere quel che è quasi lapalissiano, l’influenza di Joyce su praticamente chiunque pensi di scrivere qualcosa in quegli anni (figuriamoci per un così caparbio discepolo). Al contrario, quel che è difficile considerare è la portata dell’immediato e portentoso secondo “preferirei di no”, che solo per umiltà Beckett tace o finge lui per primo di non vedere, per cui fin dall’inizio nel confronto con Joyce si tratta piuttosto di pura profanazione, geniale tradimento, paurosa capacità di imboccare una strada tanto impervia quanto deviante. (Sia Beckett che The Penman schifavano il joycianesimo dei contemporanei, ça va sans dire). Il suo nome è Murphy, semmai il più arguto lavoro di depotenziamento mai visto. Semmai kafkiano (uno che lo ha capito, anni dopo, è Cortazar, nelle folgoranti pagine-citazione dell’ospedale psichiatrico di Rayuela). Semmai ironicamente freudiano (senza contare il rapporto davvero torbido con la figlia di Joyce, a sua volta abbonata a incursioni psichiatrico-ospedaliere).
E se l’origine - Dublino questa eterna tremenda amatissima nemica - è la stessa, e procura la medesima “rabbia stanca, astratta” che invita alla fuga, la risposta di Beckett è più affine a un movimento laterale, una specie di schivata assoluta e rocambolesca insieme, progetto di vagabondaggio e solitudine cui solo le lettere, il cui gettito è strenuamente mai interrotto, pongono un limite. E allora: “Questa vita è spaventosa, e non so come si possa sopportare” (1930); oppure l’estrema propaggine del progetto bartlebyano consegnato al fido Thomas McGreevy: “Comunque nulla è più allettante dell’astensione. Una bella vita tranquilla costellata da esoneri volontari” (1931); o ancora (1932): “[…] gran parte della mia poesia […] fallisce proprio perché è facultatif”. (Uno di questi esoneri, sia detto per inciso, è una lettera datata 2/3/36 a Sergej Ejzenštejn dove lo prega di “essere ammesso alla Scuola statale di cinematografia di Mosca”, e nella presentazione si dice “ho lavorato con Joyce” e, dopo aver precisato che gli “interessano di più gli aspetti di sceneggiatura e del montaggio” si chiude col mirabile “la prego di considerarmi un cineasta serio”. Mentre poco prima nello stesso anno magnifica Pudovkin e Arnheim e ha questa fascinosa speranza che un film sonoro technicolor come Becky Sharp - Mamoulian! - un fiasco nelle sale dublinesi, abbia molto più successo in modo “da creare una riserva per il cinema muto bidimensionale, affossato non appena emerso dai suoi rudimenti”. Da qui a Film scritto per Keaton nel 1964 il salto è naturale).
Ora, quale astensione ed esonero volontario più assoluti e visionari che, in pieno nazismo, partire alla volta della Germania per una visita squisitamente turistico-culturale. Qui Beckett dà il massimo come uomo come scrittore come cineasta. Sono pagine incredibili, che necessiterebbero di ben altro spazio e tempo di riflessione, fondamentali per comprendere questo vero e proprio sacrificio e sforzo di guardare sotto la coltre delle cose. Beckett alla ricerca di strutture architettoniche e artistiche che il nazismo si ossessiona a cancellare. Beckett che visita musei e convince impauriti direttori a mostrargli dipinti esclusi dalle collezioni perché “arte depravata” e viene fatto scendere negli scantinati dove si alzano lenzuola bianche e cominciano visite private sottoterra. Beckett che contatta giovani artisti che vivacchiano in superficie come se fosse un altro caso di sottosuolo. “L’integrità delle palpebre che si abbassano prima che il cervello si accorga del pulviscolo nel vento“.