Buongiorno cinema
In una sezione centrale di La Poésie d’aujourd’hui di Jean Epstein intitolata nell’indice La littérature des aliénés e poi rielaborata sensibilmente all’interno come La Poésie des aliénés et la Poésie moderne, ci si imbatte in uno schema impaginato come le colonne di una sceneggiatura. Sotto la prima colonna (dedicata ai cosiddetti Aliénés) si legge: “ne font que de l’autobiographie”, al quale corrisponde, sotto la seconda (detta Modernes): “font de l’autobiographie aussi mais plus objective, impersonelle quelquefois et sous certains rapport”. Tre pagine dopo, segnalandone la totale adesione alla colonna dei moderni, si inaugura il capitolo - davvero unico in un libro scritto nel 1920 e apparentemente dedicato alla magnifiche sorti e progressive della poesia - intitolato Le cinéma (anche questo sottoposto a variazione: Le cinéma et les lettres modernes), la cui prima frase è altrettanto emblematica: “Le cinéma sature la littérature moderne”. Due anni dopo Epstein, che nel frattempo ha lavorato come assistente sui set di Gance e Dulac, firma il suo primo film, Pasteur, non a caso facendo subito convergere i suoi scritti scientifici con la verifica incerta cinematografica..
Siamo, di nuovo, in pieno svolgimento psicodrammatico. Per ottenere doti vicine alla veggenza, e muovere i primi passi in una dimensione di visualità assoluta, bisogna uscire da sé, scardinare il soggetto e organizzarne la parallela risalita attraverso l’impersonalità della messa in scena. Qualcosa appunto di più e di più sotterraneo dell’autobiografia. Un campo aperto a tutte le possibili connessioni, ma con l’obiettivo di spezzarle una a una, fino a ritrovarsi vigili in una zona plumbea e trasparente insieme, che non esclude imperfezioni e malintesi, come avverrà nell’epopea flou, nel perpetuo moto ondoso di sovrimpressioni e giustapposizioni su cui si struttura l’evoluzione di Epstein cineasta (già qualcun altro in questo numero di “film parlato” si è soffermato sul molto simile lirismo dei voluti e ricercati malfunzionamenti delle riprese di Jonas Mekas), fino ad arrivare alla sconcertante riconquista del soggetto nel cosiddetto periodo bretone, che annovera alcune delle immagini più scolpite e granitiche di sempre (oggi le chiamano documentari) che da Finis Terrae, passando per Mor’Vran, giungono a L’Or des mers (il quale, secondo una pratica mai interrotta di doppio inabissamento, sarà poi anche romanzo). Tutti capolavori. Tutti da ripensare a fondo, non solo in rapporto alla coeva mareggiata sovietica (nei cui confronti, come faceva notare Langlois negli anni cinquanta, già cercavano una variante), ma a opere capitali e quasi coetanee come Douro, Faina Fluvial di Oliveira e Limite di Mário Peixoto, o ancora al di poco successivo Flaherty, o più avanti a ‘inserti’ brucianti come la mattanza dei tonni in Stromboli di Rossellini, a certo Resnais, a certo Franju degli inizi… Insomma tutto un filo rosso in cui il reale ottiene il massimo di realismo passando per una completa trasfigurazione, una tempesta di dissociazioni, accelerazioni, metamorfosi, nevrosi, rifiuto della logica, impulsività che arriva fino ai nostri giorni, come si vede in alcuni testi esemplari presi in esame su questo numero della rivista: di Mekas si è detto, ma si pensi a Eduardo “Teddy” Williams o al threesome aràcnide formato da Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman. Scrivendo nel 1953 sui “Cahiers di cinéma” a proposito di Finis Terrae, Langlois spiegava: “Si tratta della ricerca di un qualche cosa di fantastico molto più reale”. Che passa, aggiungiamo noi, per una rivoluzione interna ai processi identitari, e che, a contatto col film, si precisa in quanto immaginazione (proprio: messa in immagini) dell’impersonale, dotandolo di un’auto-combustione interna che porterà Epstein a rinvenire nel cinema il processo poetico più alto, e che qui semplicemente basta individuare quale principale linea di risalita per un soggetto tutt’affatto nuovo e umano. Epstein chiamerà questo processo lyrosophie, precisandolo nei termini di un lirismo anti-sentimentale e di un subcosciente (leggeva a fondo Freud) virato verso una personalissima mistura di esoterismo e scienza biologica, sensualità e tecnica, che lo porterà via via a liberarsi - negli scritti prima e nei film poi - di certo simbolismo dei suoi contemporanei. Per capirci: un Lynch non può che rivolgersi al genio sensitivo di Germaine Dulac o più avanti a Maya Deren, e non a La Glace á trois faces, che vede Epstein già rivolgersi altrove, verso una sensualità celibe e quasi scientifica, dove anche il meraviglioso incassa la razionalità dell’orrore (ecco perché subito dopo sarà la volta di La Chute de la maison Usher da Poe, ed ecco perché il finale celeberrimo La Glace á trois faces arriva a essere citato nel capolavoro su commissione di Dreyer Raggiunsero il traghetto [De nåede färgen]).
Il libro in questione - primo volume di un’opera che ha in serbo altre nove probabilmente mirabili uscite - si situa all’inizio di questa discesa negli abissi dell’inconscio, prendendo in esame tutta la prima produzione dell’Epstein scrittore e saggista visionario, fra cui spiccano alcuni imperdibili inediti, soprattutto romanzi incompiuti della prima ora. Ce n’è per tutti i gusti: bauli di balzachiana memoria che custodiscono scritti sovrannaturali di ispirazione zarathustriana e che anticipano i futuri interessi di Epstein per la kabbala (Le Mage d’Ectabane); flussi giovanili che si sognano capaci di un pensiero erotico-filosofico completo (Caritas Vitae); frammenti di romanzi epistolari senza titolo; cosmogonie legate agli studi in medicina e matematica che verranno riversati nel progetto filosofico e nei film a venire (Esculape); confessioni edipiche (il padre, l’omosessualità). Curiosamente già in questo ribollìo viene anticipata l’ossessione per il reale che poi viene sviscerata nei primi due testi finiti - il già citato La Poésie d’aujourd’hui e il successivo La Lyrosophie - basati invece su un’idea di saggistica deragliante, apodittica, quasi romanzesca, spesso versificata irregolarmente e dimenata fra le pieghe di molteplici discipline. Epstein insiste a richiamarsi alla “stretta realtà”, ma a partire dall’eccesso e nell’eccesso. Il reale come barbarica ipotesi di spiegazione del miracolo dell’esistenza (per parafrasare i versi di una poesia incuneata fra le altre nel saggio). Rimbaud, ovviamente: continuamente preso in considerazione e infine affrontato nel 1922 con un testo analitico e allucinatorio sulla rivista L’Esprit nouveau (pubblicato insieme ad altri articoli isolati in calce al volume), ma già preso a esempio di uno spazio letterario rivoluzionario in Le Phénomène littéraire (1921). E poi Cendrars (all’epoca amico e mentore, e una cui lettera chiude a mo’ di post-fazione La Poésie d’aujourd’hui che gli è anche dedicato), Cocteau, Apollinaire, Proust, Baudelaire, Leger e… Chaplin, Griffith, Gance.
Già allora per Epstein il bello eterno non esiste, esistono quelle che poi ancora Mekas definirà le forme liriche e quasi animistiche di un eterno (questo sì) inconoscibile, quelle piccole estasi inghiottite dal tempo che recano però i segni tangibili di un passaggio umano sulla terra, completamente estranee agli stretti confini autobiografici. La rivelazione, ecco quello che conta. Non a caso siamo all’alba del famoso testo che Epstein intitola Bonjour cinéma.