Tigre di carta
In Heimat - Fragmente: Die Frauen, l’episodio forse insieme più atipico e più nascostamente cruciale della saga, Edgar Reitz sceglieva il personaggio di Lulu – e attraverso lei l’intera genìa femminile di Heimat – per verificare l’effettiva consistenza di ciò che cerchiamo di definire con la parola memoria. Come colto da un dubbio – che l’assecondare la durata stratificata di storie, fatti e ricordi potesse davvero restituire la verità e aiutare a comprendere le scelte e le responsabilità di una nazione e di un continente –, Reitz procedeva a questo scavo ulteriore abbandonando ogni idea di cronologia o ciclicità, cercando di riverificare l’idea-Heimat stessa, e cioè che la memoria, per quanto sospesa nei suoi salti, nei suoi ritorni e nei suoi buchi neri, una volta sondata narrativamente fosse in grado, anche solo per un momento, di ricomporsi, di ricapitolare, di far ‘vedere’ a tutti cos’era veramente successo (certo, senza mai essere così ingenuo da credere che questo non potesse portare parallelamente a riconoscere quanto illusorio possa alla fine risultare questo processo e dunque la vita tutta).
Fatte queste premesse, è chiaro che del punto di partenza di Filmstunde_23 (firmato insieme a Jörg Adolph), e cioè tornare sull’esperienza filmata di un corso di cinema tenuto da Reitz in un liceo nel 1968, non si può non rilevare il fatto che la scolaresca in questione fosse tutta femminile. Reitz riunisce le ragazze di allora più di cinquant’anni dopo, e con loro visiona i materiali di quell’esperimento collettivo e discute dei suoi significati nel tempo… E d’altra parte, già nel suo esordio, Malhzeiten, Reitz mostrava che spesso molto realismo presuppone, per esistere, una buona dose di irrealismo, e che in realtà, il non voler dare giudizi morali, è parte di un discorso critico essenziale sui rapporti fra i sessi in una struttura sociale specifica. Semplicemente le persone – sopraffatte – non si capiscono: questo è esattamente l’obiettivo del capitalismo, e per mostrarlo Reitz partiva subito da un personaggio femminile, Elizabeth, forse meno libera di come sono oggi le donne-ragazze del 1968 chiamate a raccolta in Filmstunde_23.
Reitz sa di non essere il primo né l’unico a usare questo metodo, e per forza di cose si deve confrontare con I bambini di Golzow di Winfried Junge e Barbara Junge, che resta in questo senso una pietra miliare. Già quella sorta di viaggio ‘oltre l’infinito’ – decadi di riprese dal 1961 in un villaggio della Germania dell’Est, che all’inizio sono solo un progetto didattico voluto dalle autorità (mostrare come il socialismo reale trasforma un’area arretrata in una zona modello attraverso le vite dei bambini di una scuola) – diventa via via un bilancio storico e umano impareggiabile: il documentario più lungo della storia del cinema, che segue le vite e le vicissitudini di quei bambini fino all’età adulta, dalla costruzione del Muro fino a dopo la caduta. Ecco, anche quel viaggio – forse per la natura stessa del rapporto fra documentario e verità, tra realtà e illusione – smarrisce velocemente l’intento pedagogico e si trasforma in un’interrogazione inquietante, per potenza e ambiguità, sui concetti di tempo e di spazio, di storia e di mutamento, di vita e di morte.
La durata, il vivere, così corti così lunghi, ecco il mistero che non si risolve. Anzi, mistero che si infittisce. Filmstunde_23 infatti, rispetto a I bambini di Golzow, aggiunge un tassello essenziale che – di nuovo: per sua natura – estremizza il senso di ineffabilità della vita e della realtà: l’argomento di discussione, l’oggetto del corso, è il cinema, il fare film addirittura. Reitz possiede dei documenti eccezionali: i film che le ragazze (ora donne madri nonne) realizzarono ancora adolescenti come compendio del corso. Non solo. La vertigine si fa assoluta dal momento che questi film, non sono più solo i film fatti allora, ma i film che vengono visti dalle loro registe ora. La rivisione, il confronto fra una prima visione e la memoria che si ha di quello che era stato fatto, assume immediatamente le stesse caratteristiche di meravigliosa nebulosa di nome tempo.
In fondo, cosa fece Reitz nel 1968? Cercò di costruire insieme a un gruppo di ragazze giovanissime un alfabeto cinematografico che, messo a confronto con l’idea di adattamento letterario, una volta chiamato in causa il filmare vero e proprio (Reitz non solo filma le lezioni, ma affida alle ragazze delle cineprese Super8 con cui girare i loro film), dà la sensazione di mostrarsi fragile e fluido, cioè incapace (per fortuna) a restare irretito da schemi e scritture, subito attratto dal movimento scivoloso del reale. Non credete a quelli che vi dicono che è difficile fare film, andate e filmate, insiste Reitz (sorprendente vicinanza col Rossellini coevo: “la cinepresa è una tigre di carta!”). È ovvio che le ragazze, mentre imparano le tecniche basilari, si espongono, parlano di sé, dei loro sogni, esercitano un diritto alla parola ancora tutto da verificare, ma è meno ovvio che questo passi per la parola-cinema. E soprattutto, che questa stessa parola venga ritrovata decenni dopo e rilanciata con stupore e leggerezza. C’è anche malinconia certo, ma legata a un desiderio autentico, a una passione per l’immagine. Ecco allora che quando si rivedono, queste donne non sembrano tanto colpite dal loro corpo di ragazze, quanto dalla forza con cui quelle immagini filmate riguardano subito un altrove (che sia un segmento di cinema riuscito oppure no), è vero, parlano delle loro autrici (il cosiddetto documentario), ma parlano anche sempre e per sempre di qualcos’altro che non è identificabile né con loro giovani né con loro anziane. Chiamatela realtà vita fiction, come volete, ma è chiaro che questi film dimenticati (teneri veloci spericolati) è proprio nell’essere rivisti che scoprono di aver colto trattenuto e spostato su un piano abissale e indefinibile il concetto di sé e della realtà. Che segni sono restati sui corpi oggi? Che segni dei corpi di allora sono incisi su quelle pellicole? Sono gli stessi di allora o mutano dal momento che quei film vengono visti? Alla fine, perché fare film (o scrivere o impegnarsi in qualche forma ‘artistica’)?
È molto bello il modo con cui le ex-studentesse si confrontano col maestro di allora, il modo in cui rievocano e ripropongono in particolare un approccio di insegnamento e discussione che voleva e vuole far saltare proprio la gerarchia maestro-alunno. Se c’è una lezione, è nello scambio, in quello che Reitz alla fine definisce la centralità delle persone, il risuonare della verità oltre le apparenze, oltre le macchine da presa stesse. Ora non c’è più distanza fra il maestro e le alunne, nemmeno d’età, lo scorrere del tempo è entrato nella fase collettiva, quella che conduce la vita verso la fine, e dunque l’intensità è in ciò che persiste, nella conversazione ininterrotta, che sopravvive in un piccolo grande film girato tanti anni fa.