Gloria a Kitano!
Broken Rage non è una parodia. Non è nemmeno un’auto-parodia. Anche come auto-ritratto vale solo se riferito a Achille e la tartaruga, immaginando entrambi i segmenti di Broken Rage come i dipinti del pittore di Achille e la tartaruga: capolavori fatti per compiacere con un ghigno malinconico tutti i critici e tutti gli spettatori; in realtà fiori di fuoco, brucianti radiografie di un metodo con la speranza di sparire per sempre (e che si gridi alla fine: gloria al filmmaker!). Piuttosto auto-ritratto ovale, come direbbe uno dei suoi scopritori veri qui da noi (enrico ghezzi), oppure (più appropriato per il caso in questione) auto-ritratto duale. Il doppio è la forma prediletta da Takeshi, un corpo bifronte che unisce sempre in una le due operazioni: dissezionare e proliferare (queste sì parodizzate in Takeshis’). Quando Kitano si profilò all’orizzonte, era già quell’altro, ‘Beat’ Takeshi, da migliaia di ore televisive e molti pamphlet e romanzi fa (oltre che per sempre il sergente Hara di Furyo di Oshima, col finale leggendario: “Merry Christmas! Merry Christmas! – ripetuto due volte – Mr. Lawrence”, e poi il primo piano in fermo immagine di Takeshi, pronto a esplodere negli anni successivi). L’esordio Violent Cop, sottratto a Fukasaku, chiariva subito e una volta per tutte il doppio binario (cui la metafora televisione versus cinema si attaglia così bene): la violenza è sì estrema, ma è anche molto astratta, molto enigmatica (sempre ghezzi infatti parlava di Siegel/Eastwood/Dirty Harry). E tutto passava per il volto, l’auto-ritratto diventava la fisica stessa del film (e poi di tutti i film), la sua leggera irregolarità, la sua fissità sghemba, il sorriso improvviso, luminoso e acido insieme.
Questo – come Kitano stesso ha più volte spiegato – almeno fino a Glory to the Filmmaker!. cosiddetto nuovo inizio che per la prima volta esplicitava il desiderio recondito di sempre, creare dall’auto-distruzione, mettere in scena metodicamente il caos più estremo, in modo che ferocia e tenerezza si tocchino in un punto impossibile (quando Takeshi vuole uscire anche da questa dinamica, allora si rivolge al mare, inteso come bellezza pura, rituale come in A Scene at the Sea e nel finale di Hana-bi, oppure come in Sonatine da contrapporre alla follia cieca di uomini armati che tragicomicamente quella bellezza, pur avendola a un passo, non riescono a vederla). Ecco, Broken Rage è Glory to the Filmmaker! disossato fino a raggiungere la forma pura, la beatitudine del cinema. Ben sapendo che non esiste, e perciò divisa in due, in modo però che il doppio sia stavolta una sorta di coincidenza assoluta, come se Jekyll e Hyde tornassero insieme sui propri passi e su tutti i ‘set’ che li hanno visti protagonisti e, pur facendo mosse e azioni opposte, fossero una volta per tutte uno. Quest’uno ovviamente è il cinema, la funebre rincorsa del cinema intorno a sé stesso, mettendo vita morte tempo spazio sullo stesso scivolosissimo e implacabile piano (come Achille con la tartaruga appunto).
Una mostruosa, imperterrita gag? Certo, non da oggi Kitano guarda ai grandi del muto come ispirazione primaria (già in tv era così). Ma anche qualcosa di più, l’enigma finale e non risolvibile. Mentre in apparenza e con fare farsesco e iper-ludico il cineasta rivisita il suo intero canone, in verità si fa beffe proprio dello stile, della possibilità stessa che un film o il cinema o lui abbiano uno stile, e non esprimano invece e sempre il dubbio in sé, duro e puro. La cosa è semplice da far paura: da un lato l’infallibile spietato killer a pagamento che sembra uscito da una costola di Brother o di Outrage e Beyond Outrage, dall’altro il suo doppio, talmente maldestro, da risultare quasi più rigoroso, più ‘seriamente’ messo in scena. In mezzo la trasformazione del set in una sorta di luogo del delitto, le stesse identiche scene, lo stesso identico décor, gli stessi attori e gli stessi eventi setacciati spasmodicamente fino a trasformarli in una macchina mutante. Qui sta il punto, si ride molto, e giustamente, ma alla fine resta solo lo sgomento, la terrea percezione di un addio (non secondario il modo in cui Kitano, ormai anziano, si sottoponga a cadute e incidenti a dir poco mortali), la ridicolizzazione delle regole del gioco per cui per essere un lungometraggio devi raggiungere i sessanta minuti, ed ecco allora che i sessantadue di Broken Rage sono possibili solo con l’inserimento di una chat in diretta in cui gli spettatori commentano ciò che stanno vedendo. Divertitevi pure, Takeshi non è contrario, sappiate solo che non si darà a vedere per molto un film così in grado di unire genio e dolore.
E il genio e il dolore sono anche le due traiettorie incrociate con cui Takeshi disegna questo secolo e poco più di cinema. Il genio con cui si è mangiato secoli di ricerche e trovate e il dolore per il suo incatenamento a meccaniche commerciali, per la schiavitù a cui lo costringono gli avanzamenti tecnologici, per la perdita dello spirito, del gusto, del carattere.
Allora ‘Beat’ Takeshi mette in scena questa doppia parabola in cui invoca appunto l’autodistruzione e lo fa alla maniera di Buster Keaton, di Carmelo Bene, di João César Monteiro abitandola e buttandosi à corps perdu in ogni fenditura che gli apre. Riesce così a portarci in quella sospensione/assenza che è il momento perduto del cinema, galleggiamo in uno spazio senza tempo dove solo i giganti (da Ozu a Hawks, Renoir e Laurel&Hrady) ci hanno portato. Non si piange, anzi, si ride tanto ma sono risate di boia, amare e umane, come quelle che ci provocano per esempio i mondi di Maresco e Kaurismaki. Kitano disegna con materia viva tratti sottili che segnano quel confine che nessuna macchina può superare, l’imperfezione, il vuoto, la rottura (intesa anche come noia) distruttiva che è ancora rabbia e odio per l’ottusità meccanica, la caduta dell’io.
A chi è ancora vivo non resta che provare a trasformare il dolore in rabbia, e la rabbia in una forza (auto)distruttiva.