Ma la vita è dannarsi al coraggio
Partendo dal presupposto che la distinzione tra documentario e film di finzione è spesso fuorviante, nel caso di Tardes de Soledad, ultima fatica di Albert Serra, tale catalogazione diventa superflua. Il cinema di Serra non assomiglia a niente, solo al suo autore e all’atteggiamento nei confronti della realtà, che per sua stessa volontà deve rimanere opaca e imperscrutabile. Non importa se ciò che sta filmando sia il corpo in agonia di un attore/simbolo/feticcio come Jean-Pierre Léaud o quello di un torero nell’arena, se sia Benoît Magimel perso nelle notti di Tahiti o Lluís Serrat Masanellas con la sua presenza placida e rassicurante. Quello che accomuna tutti i protagonisti dei film di Serra e che potrebbe essere la definizione della sua opera è racchiusa in una frase di Carmelo Bene, “Smarrirsi per non più ritrovarsi”. Qualche anno fa, quando Liberté (che nel 2019 sarebbe diventato un film) venne presentato in forma di pièce teatrale al Volksbühne di Berlino, buona parte della stampa tedesca, forse abituata a una messa in scena più classica e conservatrice, non accolse bene lo spettacolo, anzi in alcuni casi lamentò il senso di disorientamento condiviso con gli attori che sembravano perduti sul palcoscenico. Il regista rispose in maniera provocatoria, da par suo, ribaltando quella che doveva essere una critica aspra in un elogio. “È esattamente quello che volevo ottenere, che gli interpreti si sentissero persi, poiché io avevo dato pochissime indicazioni”. Questo “metodo” è stato applicato in tutti i suoi film, in cui si è servito per lo più di attori non professionisti - per evitare la padronanza e il controllo che un attore professionista ha sul corpo e la voce – cogliendone la fragilità e dunque un’innocenza rinnovata. Anche un attore navigato come Magimel è stato sottoposto allo stesso “trattamento”, accettando di affrontare alcune scene senza conoscere il copione in anticipo ma ripetendo le battute suggerite attraverso un auricolare, che veniva però deliberatamente silenziato nel momento dell’azione.
Per Tardes de Soledad Albert Serra ha seguito per due anni il giovane torero peruviano in ascesa Andrés Roca Rey nelle arene di Madrid, Bilbao, Sevilla e Santander, dichiarando alla fine che Andrés rimane per lui uno sconosciuto, non avendoci quasi parlato, lasciandolo al suo mistero. Opaco, ancora una volta.
D’altra parte il torero non è il solo protagonista del film, ma divide la scena con il toro che ha medesima dignità.
Il film si apre su un toro che respira pesantemente, sembra smarrito, forse spaventato. La scena successiva vede invece Andrès nell’auto-van che lo riporta all’albergo, dopo la corrida. I picadores e i banderilleros che lo accompagnano si complimentano per le sue gesta, ripetendo frasi del tipo “oggi hai fatto la differenza!”, “hai dimostrato di avere le palle più grandi del toro!”. E queste frasi si ripeteranno per tutto il film, quasi a voler rassicurare e compiacere la star, che rimane invece impassibile, senza lasciar trapelare la minima emozione, nemmeno il dolore per una ferita provocatagli dall’animale nell’arena. Nella stanza d’albergo, spogliatosi delle vesti sporche di sangue e replicato il rituale scaramantico-religioso del segno della croce e del bacio all’immagine della Vergine, si guarda finalmente allo specchio, attentamente.
Il narcisismo – Serra indugia sul suo corpo nel momento della vestizione e della svestizione, tanto da svelare una certa ironia, dovuta a una virilità marcata a tal punto da mutare nel suo opposto – diventa necessario per sostenere un’impresa nel corso della quale il torero è consapevole di rischiare la vita, ma pare non curarsene. L’autocontrollo e la sicurezza con cui sfida il toro, le movenze studiate, le espressioni teatrali del volto, fanno parte di una messa in scena talmente manifesta da sembrare artefatta. È infatti l’animale, grazie alla sua imprevedibilità, a portare all’interno dell’arena e del film la realtà. In fondo Tardes de Soledad è una profonda riflessione dialettica tra messa in scena (il torero) e realtà (il toro). Tra le due parti, quella che appare più umana – per il dolore incomprensibile, lo smarrimento e la paura – è quella dell’animale. E è quest’ultimo, reagendo in maniera inaspettata e cogliendo di sorpresa il matador, attaccandolo, a riumanizzare Andrés, facendogli provare la stessa paura e lo stesso stordimento da lui provati fin dall’inizio. Inconsapevolmente il toro, grazie a un gesto istintivo – interrompe la rincorsa reiterata alla muleta e colpisce il torero – reca un’istanza morale. In quel momento entrambi sono soli e disorientati, sentendo la morte che incombe.
Il film non avanza in maniera cronologica, ma giustappone diversi episodi di corride avvenute nel corso di due anni nelle poche città in cui la tauromachia è ancora legale in Spagna, determinando un ritmo ripetitivo, come i gesti replicati di volta in volta. Nemmeno nell’ultima scena, quando Andrés saluta il pubblico (che rimane sempre fuori campo) e esce dall’arena, c’è un vero tripudio. Il torero poco prima aveva commesso un errore da principiante, essendo stato costretto a trafiggere il toro una seconda volta, dal momento che al primo tentativo l’animale non si era accasciato a terra morente, ma aveva continuato a resistere senza dar segni di cedimento.
Tardes de Soledad è un grande affresco sull’agonia di una tradizione, di uno spettacolo popolare che ormai non ha più ragione di esistere nella cultura odierna, attenta alle cause animaliste e all’elusione di rappresentazioni cruente e ferali. Come sempre nel cinema di Albert Serra la Storia avanza a discapito delle sue pedine. Accadeva in Història de la meva mort, dove un Casanova deleuzianamente macchinico cedeva il passo a Dracula, archetipo scarnificato dell’oscurantismo. Avveniva ne La Mort de Louis XIV - in cui il Re Sole si spegneva nella miseria del suo corpo incancrenito, portando via con sé un regno e un’epoca leggendaria – e in Liberté – buio attraversamento di una notte trascorsa alla ricerca del piacere inappagato, che trovava compimento nella piena luce sadiana dell’alba. “Le passioni dell’uomo sono soltanto i mezzi di cui la natura si serve per conseguire i suoi scopi”.
Il crepuscolo di un rituale celebrato da dipinti e incisioni fin dal II secolo a.C., esaltato da Goya e Picasso nei suoi tratti più irrequieti e accesi, è svelato in Tardes de Soledad attraverso particolari mai osservati in precedenza. Attraverso tre macchine da presa dotate di teleobiettivo, i corpi dei tori e del torero sono ripresi nel dettaglio, da un punto di vista che nessun spettatore di corride, nemmeno il più assiduo, potrebbe cogliere. Se a questo si aggiunge un sonoro ottenuto dall’utilizzo di microfoni con batterie della durata di diverse ore, in grado di registrare il respiro, i rantoli, i sussurri dei protagonisti nell’arena, non è difficile intuire come il film di Serra sia un’opera eccezionale, che lascia sgomenti e ammirati, non solo una testimonianza unica sulla tauromachia, ma una profonda riflessione sulla vita e la morte. “La vida no vale nada” chiosa un banderillero. Andrés mette a repentaglio la sua ogni volta che affronta il toro. Affrancato da necessità economiche, il suo gesto temerario non si esaurisce nella vanità ma incarna l’impulso a sfidare il destino, consacrando la propria esistenza a un’impresa titanica, assurto a un olimpo che sta per scomparire.