Cuore di vetro
Fulvio Baglivi, Lorenzo Esposito
Harvest sorprende per una certa inclassificabilità. Lavora su un’idea di tempo e spazio ignoti, anzi che si mettono in conversazione con l’ignoto (non si è troppo lontani dal vero a considerare questo un film di fantascienza). Le stesse domande che pone – narrativamente minime – spariscono di fronte al mistero di una violenza grigia, fangosa, che sembra provenire dal nulla. In quale tempo storico agisce questa comunità cupa, al limite del culto, non è dato sapere. C’è forse qualche riferimento a una prossima rivoluzione industriale che spazzerà via questi residui agrari (il disegnatore di mappe dovrebbe incarnare questa ipotesi), ma di questa rivoluzione non si vedrà altro che la dissoluzione della comunità stessa, implosa dall’interno, sepolta sotto le sue nefandezze. Distese e vallate rigogliose convivono con una violenza mostruosa, accanita, quasi ancestrale. Tsangari palesa il titolo del romanzo fonte dell’adattamento,Harvest di Jim Crace, ma a poco serve, se non che lo scrittore si è sempre interessato alla messa in scena di certe età oscure, e che Tsangari riesce col film a ripercorrere le tappe di una scrittura che quanto più procede austera tanto più si spappola dall’interno (esattamente come la comunità protagonista). Potrebbe servire l’Herzog di Cuore di vetro, per questa idea di spossessamento e follia allucinatoria dell’esistenza che converge direttamente sull’immagine facendone il nucleo di qualcosa che brucia prima ancora di cominciare e che finisce in cenere (Tsangari parla di dagherrotipo, splendente fanghiglia senza futuro). Non sappiamo quanto possa servire l’idea che alla fine sia un western (altra indicazione di Tsangari), se non ad aumentare il misto intangibilità e caos che attraversa il film. Ma appunto, l’a-storicità del film è l’elemento più affascinante, l’idea per cui sia i personaggi che lo spettatore siano costretti a uno stato perenne di perdita e esilio senza possibile identificazione (in qualche modo brechtiano, questo sì).