"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

April (Dea Kulumbegashvili)

Monday, 24 March 2025 10:53

Epica e sacrificio

Fulvio Baglivi, Lorenzo Esposito

Se non fosse per la lucidità d’intenti e la chiarezza politica, ci si dovrebbe ancora stupire – al secondo lungometraggio – dell’istinto per l’epica di questa giovane regista georgiana. Tutto, la luce terrosa corrusca e ferrosa, il mondo visto come un vasto acquitrino di origine femminile, il movimento liscio potente ma costellato da vere e proprio fratture, faglie gigantesche che si aprono come bocche oscene – tutto contribuisce a creare una sorta di carnale, durissimo dramma epico (un po’ come se l’idea sacrificale dell’immagine di Tarkóvskij incontrasse l’olimpicità di Ford). È la stessa Kulumbegashvili a chiarire cosa intende per epico: “non uno stile narrativo, ma la vasta portata della vita e dell’esistenza di un individuo”. L’esistenza è quella di una donna sola che conduce la sua battaglia solitaria rinunciando a se stessa: pratica aborti clandestini in aiuto di donne straziate dal travaglio e dal controllo cui sono sottoposte. L’epica individuale così si connette col nervo scoperto dell’origine, della nascita e della morte, ma slittando su un piano misterioso che sembra rivolgersi metafisicamente all’arco tra terra e cielo (qui siamo più dalle parti di Dovženko). Se uno squarcio si è aperto in modo irreversibile, bisogna avere il coraggio di attraversarlo anche se, come è costretta ad accettare la protagonista, si deve fare i conti con l’impossibilità di produrre un cambiamento. Perché la donna, parte della Terra e delle sue creature, è costretta ad accettare la sua natura, l’epica è il vivere stesso, valori e ideali sono passati, mai nati, abortiti, non c’è più spazio per la hybris. Interessante allora come la regista insista nelle sue dichiarazioni sulla fragilità del processo di creazione, dell’insicurezza e dell’isolamento da cui nascono fino ad oggi i suoi film. Non solo per l’evidente piano metaforico in gioco, ma soprattutto perché la lentezza che la Kulumbegashvili rivendica come parte ineliminabile della sua regia, è forse l’indicazione politica maggiore, il modo in cui il tempo della messa al mondo (per esempio: di un film o di un bambino), combatte l’oscenità morale della realtà cui sembriamo non poter più sfuggire.

 

 

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