Il prisma di Jauja
Luigi Abiusi
Sintesi inaspettata tra eidetismo (in modalità di rimando, concentricità di immagini), fenomenologia e, in mezzo, ermeneutica come essenziale tramite linguistico (tra fenomeno e sarabanda iconica), Jauja scava dentro quella ferita aperta, quell’aporia che è l’immagine cinematografica e, in genere, ogni congrua sedimentazione di senso, cioè votata all’alterità, all’invisibilità, all’incongruenza. Sintesi non didattica, gnomica, ma verificabile nella disgiunzione, in un procedere di senso che esce cioè dalla sinossi per altre ipotesi che si perdono dentro le spire dello spazio e del tempo: vortice nel mare di Solaris o semplice sasso lanciato in uno stagno, che è poi (o prima), per cerchi concentrici sull'acqua, la scogliera argentina, nel finale tarkovskiano.
Appare subito brulicante e inquietante lo squarcio sul fenomeno costiero, perfettamente digitalizzato e incorniciato: spazio di roccia ricoperto dal verde smagliante delle alghe, così fulgido e fluido nelle riprese in macchina digitale, che viene come smorzato e imprigionato dal quadro in 4:3, per ricondurlo a illustrazione, cosa morta, crosta ottocentesca. Ed è questa la natura del film: il conflitto tra griglia anticante, archetipica, che tenta di calcificare la dinamica della veduta, e volontà da parte del fenomeno, delle essenze delle cose, di muoversi, avanzare per liberarsi dei contorni. Ma Jauja in quanto apparente neutralizzazione di forze non è certo un’involuzione del cinema di Alonso; anzi è il sorprendente scarto in avanti, verso la coscienza dell’innata velleità essenziale dell’immagine in movimento, nel metabolismo di una dialettica di continuo annichilimento e rilancio della cinetica, tra le polarità della ripresa digitale fluidissima (più viva del mondo stesso) e la tensione ossificante (tanto maggiore in quanto in un 4:3 smussato) esercitata dai bordi.
Allora dentro la preponderante mimesi di Alonso Jauja fa emergere quella tentazione onirica che era come soffocata dal volume violentemente naturalista di un film come Los muertos; come un cortocircuito favoloso alla fine del viaggio del capitano Dinesen, stilizzato nel soldatino di legno (che è chiave onirica lynchiana che apre l’orizzonte alla ridda eidetica) ad evidenziare la natura prismatica del film. Ma non è il sogno fatto da Ingeborg nell’enorme casa danese, o non è solo questo. È il sogno del dispositivo-film-prisma attraverso cui si vedono infinite realtà in regime di straniante, metamorfica eppure intima reciprocità.