"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Abiding Nowhere (Tsai Ming-liang)

Monday, 24 March 2025 11:35

La trasparenza contro il caos

Edipo Massi

Forse non è un caso che, giunto al decimo capitolo della saga del ‘camminatore’ iniziata nel 2011, Tsai Ming-liang si sia convinto che l’ipotesi installativa non fosse più sufficiente, e che l’unica esperienza in grado di restituire lo ‘stato’ di assenza assoluta (di desideri, di preoccupazioni, di nulla), sia quella dello spettatore in una sala cinematografica (il film viene perciò selezionato alla Berlinale 2024). L’estenuarsi fino quasi a diventare traslucido e aereiforme del walker Lee Kang-sheng, che senza dubbio porta alle estreme conseguenze l’idea di un’unica connessione corpo-durata-immagine di Tsai Ming-liang, si ipotizza affine alla seduta-visione dello spettatore cinematografico e non più installabile ma proiettabile su grande schermo. La verifica, per quanto incerta, coglie qualcosa che è forse insita in questa ‘serie’ interna all’opera di Tsai Ming-liang, e cioè il passare a un metafisico stato gassoso non solo del camminatore, ma della cornice che lo contiene e della forma stessa (che torna per sempre liquida) dell’occhio (qui Tsai sembra mettersi in conversazione con l’orbita oblunga da sempre esplorata da sempre – anche se esplicitata nella punta teorica di Kundun – da Scorsese). Assurgere a una ‘zona’ che comprende insieme presenza e assenza, dove ci si muove attraverso il caos senza esserne influenzato in alcun modo (di nuovo, non è un caso che, in termini di contrasto, in questo episodio Tsai scelga il paesaggio ‘politico’ statunitense: Washington D.C.; oppure con didascalica ironia ‘lanci’ il camminatore in un museo, ai bordi di una stazione ferroviaria e di una chiesa, per poi riportarlo nei boschi). Il sole sorge, e poi tramonta, da un lato il camminatore rallenta quasi fino a contrastare la ‘vita’ che lo circonda; dall’altro lo spettatore si sintonizza inconsciamente su una diversa lunghezza d’onda che alla fine deve all’oscurità della sala cinematografica uno sporgersi verso l’abisso più ‘naturale’ dell’artificio di una galleria di un museo.

 

 

The Box Man (Gakuryū Ishii)

Monday, 24 March 2025 11:30

Memorie dal sottosuolo

Edipo Massi

Sembra che Kōbō Abe, per l’adattamento del suo romanzo più allucinatamente kafkiano, avesse chiesto a Gakuryū Ishii (al tempo ancora Sogo Ishii) di fare un film il più possibile coinvolgente per il pubblico. La cosa, vista la struttura a dir poco stratificata nervosa e quasi psichedelica del romanzo, aveva molto sorpreso e preoccupato il regista. A maggior ragione, se si pensa che all’epoca (fine anni novanta) Gakuryū era in procinto di girare il film in Germania, forse con l’idea di tornare all’industrial che rompe gli argini e tracima tutto (come il romanzo) che aveva filmato dieci anni prima nel super-metallicoi>Halber Mensch (oi>½ Mensch) sulla visita in Giappone dei grandi Einstürzende Neubauten. Così, quando nel 1997 il film fu interrotto e proprio cancellato il giorno stesso dell’inizio delle riprese, gettando Gakuryū Ishii in una lunga depressione, comincia un lungo processo di rielaborazione dell’idea stessa del film che conduce ventisette anni dopo alla realizzazione dii>The Box Man (presentato alla Berlinale 2024, nel paese dove sarebbe dovuto essere girato). Alla ricerca di un modo più malleabile per rispondere alle domande che l’epocale (e leggendario) romanzo pone? Non penso chespan lang="en-US">Kōbō Abe intendesse questo. Non certo lui, che aveva scritto e sceneggiato i grandi film di Hiroshi Teshigahara riuscendo sempre a toccare l’essenza kafkiana nello splendore inquietante (nell’angoscia connaturata a qualsiasi forma di splendore), non nel rovello. Il punto è che questo romanzo letteralmente incarna il Giappone (e in parallelo una linea di cinema giapponese che potremmo tracciare da Ozu a Imamura e da Wakamatsu a Tsukamoto) nella sua essenza mutante post-atomica tsunamica, ma con una visione cesellata, scolpita. Tutto è visto dal foro-cinemascope di una scatola che appare negli angoli delle strade di Tokyo di giorno (chi la vede è colpito dalla maledizione e vuole appropriarsene, vuole diventare il nuovo box man) e scompare nell’ombra la notte. Kafka appunto (e via Kafka, il Dostoevskij dispan lang="en-US">Memorie dal sottosuolo). La tana, il sottosuolo: ogni passo – nel romanzo e, con lucidità sopraffina e ironia atroce, nel film – è diretto verso uno strato inferiore, eppure inabissandosi, sottosuolo dopo sottosuolo, sembra avverarsi una realtà più terrena, forse più umana, che in superficie.

 

 

Grand Tour (Miguel Gomes)

Monday, 24 March 2025 11:27

Grand detour

Edipo Massi

Qualcuno ha fatto notare a Miguel Gomes la congiunzione astrale – così visibile da sembrare incredibile – per cui Grand Tour risulta essere una specie di doppelgänger di Caught By the Tides di Jia Zhangke. Ciò che viene raccontata è una storia troppo simile per essere ‘vero’ - il che forse è in percentuale la cosa più ardua che possa accadere, anche perché il film di Gomes ha per lo meno una base d’ispirazione specifica, due pagine particolari tratte da una raccolta di scritti di viaggio di W. Somerset Maugham, The Gentleman in the Parlour). Più facile da accettare, anche se non così comune, che nel panorama del cinema contemporaneo possa coincidere il metodo, entrambi i film infatti partono (anche nel senso proprio che si mettono in viaggio) da una materiale consapevolmente documentario che, una volta immagazzinato, si fa in modo che reagisca alla fiction ancora da filmare. L’unica differenza (in realtà non trascurabile, ma a ben vedere che rende i due film solo apparentemente lontani) è che Jia Zhangke, lavorando su un footage raccolto molti anni prima, si muove ‘naturalmente’ attorno a un discorso temporale (così le illusioni diventano tre: documentario, fiction e tempo), fra l’altro girando parallelamente alle riprese dei film di allora; mentre Gomes gira tutto prima, e lo fa giocando sull’idea di documentario turistico, certo un turismo quasi fantascientifico, visto che decide di cogliere aspetti di realtà (del sud-est asiatico) emotivamente già legati alla fiction che ha intenzione di girare (e che girerà esclusivamente in studio con piglio vonStenberghiano), inaugurando un modo del tutto inedito di scrivere una sceneggiatura. Se da un lato Zhangke trova la forma definitiva del film al montaggio, dall’altro Gomes ha già in mente una storia in cui il punto di vista si ribalta (non solo quello dei due protagonisti, ma di fatto dello spettatore che, nel passaggio dalla prima alla seconda parte, è dotato di conoscenze superiori a quelle del personaggio femminile, tanto quanto nella prima brancola nel buio insieme all’amante in fuga inseguito dalla donna onnisciente), per cui il dato documentario è gioiosamente distorto all’origine (come ogni turista che si rispetti sa ancora prima di partire). À suivre (si interrompe qui per mancanza di spazio).

 

 

C’est pas moi (Leos Carax)

Monday, 24 March 2025 11:22

 LC/LC – autoritratto del nuovo millennio

Edipo Massi

Non è escluso che il titolo di questa scheggia gemma di Carax si riferisca – col misto di furia ironia e rigore che gli è proprio – anche al fatto che è stata pensata per una mostra al Pompidou di Parigi (“il film doveva essere visto una volta, sparire”), e dunque è legittima la sorpresa (il sollievo?) di vederla trasformata in un “film-film” (sempre secondo le parole di Carax) solo grazie al grande schermo e alla situazione-sala-cinematografica di Cannes (non a caso ripetiamo le parole usate per Tsai Ming-liang). “Merda, la gente lo sta vedendo”. Lo vede, e cita Godard. Più che le Histoire(s), il riferimento corretto sembra JLG/JLG – autoportrait de décembre. LC/LC ha forse in mente il capolavoro di Godard soprattutto nel metodo, che non riguarda solo lo scavo e la risalita di film amati o sopiti nell’inconscio, ma l’idea di immagini (spesso solo un’inquadratura) che si cercano e si avvicinano l’un l’altra in modo da determinare, anzi proprio permettere di imparare il montaggio e di “mostrare qualcosa sul movimento” (e – qui davvero godardiano – di dire qualcosa di politico, Gaza compresa). Situazione primaria, affine alle origini (sempre anelate da Carax), che a sua volta ha il volto ovale dell’auto-ritratto (e questo avvicina Carax a Kitano, come si vede in questo numero). Più che una forma narrativa, Carax sperimenta così una sessione musicale ‘jazzata’ dove scrivere e montare improvvisano una melodia che va oltre le riprese o il set (di cui si potrà fare quasi completamente a meno, a parte ciò che riguarda il proprio corpo, l’auto-ritratto, peraltro filmato da Caroline Champetier, a cui vanno aggiunti dei frammenti definibili come home-movies dove Carax film sua figlia sul… Pont Neuf). Per cui è abbastanza facile riferirsi al film-saggio, che però sarebbe una deviazione rispetto al film-film in cui finalmente Carax si ritrova. D’altra parte, alla domanda-commissione del Pompidou – dove sei, Leos Carax? – la risposta è subito data all’inizio di questi bellissimi quarantuno minuti: “Non lo so”.

 

 

Fallen Leaves (Aki Kaurismaki)

Sunday, 14 July 2024 22:27

Una ragazza e una pistola

Arturo Lima, Edipo Massi

Come Bonello, Kaurismaki pensa che ci sia bisogno d’amore. Però l’amore di Kaurismaki viene da un’idea di speranza che lui chiama Chaplin, Bresson, Ozu. La speranza è nello spazio semplice e insieme infinito fra un’immagine e l’altra, come se si potesse fare di ogni inquadratura un respiro. Più che una metafora, è un dato di fatto, Fallen Leaves è una visione assimilabile a una boccata d’ossigeno. Non ci si rilassa, anzi Kaurismaki è anche qui strettamente politico quando dice che l’intensità, la trasparenza, la passione riguardano una storia d’amore tra proletari. Questo è il segreto di un cineasta fin troppo sottovalutato: non c’è un suo film che non sia perturbante, ma l’inquietudine e la rabbia politica sono connaturate in un’idea di cinema come composizione. Non c’è montaggio, c’è l’invisibilità del raccordo e la materia della luce, proprio come nella vita, nei suoi passaggi più inspiegabili. Se un personaggio sembra barcollare in una strana erranza, come in una lunga conversazione col vuoto, questo è esattamente il respiro, lo spazio necessario per svelarne il corpo, per restituirne intatta l’umanità. Ciò che sembra evocazione, è al tempo stesso documento dei soprusi cui le donne e gli uomini vengono sottoposti fino a sentirsi espropriati. Le foglie che cadono hanno questa esilità e mostrano un misto misterioso di fascino e angoscia, ma il punto è che provengono dalla solidità dell’albero: non è nascondendo i conflitti e le contraddizioni che si resta umani. Per Kaurismaki perfino un presentimento doloroso è un segno di vita, la sua ‘arte’ è riuscire a connetterli, accordarli. Lui lo dice meglio di chiunque: “Anche se ho acquisito negli anni una certa dubbia notorietà grazie a dei film piuttosto violenti e inutili, la mia angoscia di fronte a delle guerre vane e criminali mi ha infine spinto a scrivere una storia che possa offrire un avvenire all’umanità: il desiderio d’amore, la solidarietà, il rispetto e la speranza nell’altro, nella natura e in tutto quello che è vivo o morto e che lo merita”.

 

Il segreto dell’indiano

Arturo Lima, Edipo Massi

Desiderio di diventare un indiano… Scorsese ha mai letto questa sconvolgente meditazione di Kafka? Non lo sapremo mai. Eppure le due cineprese - di Kafka e di Scorsese – si torcono nel vento, si liberano e vanno verso la morte. Essere un indiano, essere massacrato come un indiano (questo sarebbe piaciuto a Kafka: chi ha detto che il desiderio non sia proprio di essere mangiato, maciullato pezzo a pezzo?). Siamo chiari: scrivere fare film e essere poeti, sono cose vane? Lo spettatore di cinema, il lettore sono indiani? Vorrebbero liberarsi dalla poltrona, dallo schermo, dal libro (ammesso che queste briglie ci siano mai state: ma non c’era poltrona, non c’era schermo, non c’era libro)? Vorrebbero infine liberarsi dagli occhi stessi che inseguono il desiderio (ma non c’erano già più occhi)? E poi, esiste ancora la possibilità che il desiderio si aggiri come uno spettro liberamente per il mondo? Killers of the Flower Moon non parla proprio di questa ricerca della verità e della libertà in un mondo assediato dalle ombre? Il gesto politico di Scorsese respira con il fiato di una malinconia che resta intatta anche dopo la trasformazione in pellerossa. Dunque è questo che desideriamo: essere pellerossa. È questo che facciamo: cerchiamo il prossimo villaggio. Ci resta incomprensibile come si possa anche solo pensare di cavalcare, a meno che non si diventi in tutto e per tutto il cavallo, zoccoli criniera e vento - il segreto dell’indiano.

 

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