"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

CINEMA vs DEATH (1) - Journey to Russia (Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi)

Friday, 04 May 2018 07:43

Erik Negro

In Viaggio...

Si può pensare quasi a una dicotomia, quella che oggi porta a riguardare un’avanguardia, a percorrerne i primi passi attraverso gli ultimi testimoni, a evocarla nel rapporto intimo che lega una parola a un’immagine. Quando Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi percorsero parte della lunghezza del continente russo la grande epopea sovietica era giunta a conclusione, il viaggio verso est correva lungo un (in)significante di conversione nella sua alba, mentre il significato rimaneva sommerso nel materiale umano che fu magma e ora forse solo ricordo solidificato. Un’erranza che poteva essere allo stesso tempo archeologia e scoperta, che esigeva nuovi occhi dagli spettatori di quella diretta provvisoria, e ora qualcosa di simile da noi che di riflesso arriviamo al nucleo di una delle più potenti ed impressionanti espressioni del Novecento, fissate proprio quando il secolo breve conosceva il suo tramonto. Solo a distanza di molto tempo quell’esperienza è venuta alla luce, frammento dopo frammento, nella sua completa e profondissima dialettica del ritrovamento e dell’espansione del percorso. Nel 2010 alla Mostra di Venezia Notes sur nos voyages en Russie 1989-1990 (quindici minuti di appunti e acquerelli); due anni fa al Centre Pompidou di Parigi - e poi al Filmmaker di Milano - A propos de nos voyages en Russie (percorsi bibliografici di un’ora); poi la scorsa estate prima la pubblicazione del volume The Arrow of Time. Notes from a Russian Journey 1989-1990 (Humboldt Books) ed infine l’installazione per documenta 14 a Kassel (replicata lo scorso gennaio a Rotterdam, nella sezione dedicata alle visioni “sconfitte” della storia, grazie a Gerwin Tamsma e Roberto Turigliatto, di cui diamo conto qui). Journey to Russia (1989-2017) è così una sorta di macchina del tempo, scomposta e ricomposta da sei canali che costruiscono l’impalcatura di un archivio ideale (lavorato e rielaborato dagli archivi stessi), che prende forma fisica e materica nel rotolo di dieci metri disegnato (ad acquerello) da Angela Ricci Lucchi, un impressione di splendidi simboli abbozzati e commentati, come traccia invisibile di un passaggio. Un’opera che si muove tra la straordinaria complessità e la naturale semplicità di qualcosa che lotta costantemente contro la morte, non quella dei sensi, ma quella ben più drammatica dell’oblio, di una parola fatta essa stessa frammento volatile e fragilissimo, esposto ad un tempo che divora ogni particella di ogni storia esperienza e umanità. Un tempo che concede solo la durata di un viaggio, l’ultimo possibile, insieme infinito e irrisolto.

coveer storySi sarebbe dovuto chiamare Interni a Leningrado poi Diario di viaggio nella città di Osip Mandel'stam. Ritratto dell’avanguardia “sommersa” degli anni Venti e dei suoi eredi passando per la definizione di Materiali non montati per un film da fare. Ora semplicemente Viaggio verso la Russia, con le date di inizio e di fine (sempre che queste possano realmente esistere). Metamorfosi che ha dentro di sé il senso delle parole che uniscono in un unico vortice Semyon Aranovich, Nina Berberova, Grigori e Valia Kozintsev, Ida Nappelbaum, Iosif Chejfic, Julia Dobrovolskaja, Aleksej German ed Anna Achmatova. Oracoli che ci riportano ai tempi del FEKS come alla figura di Mejerchol’d, filmati nella loro intimità casalinga, evocati dalla copertina dei propri testi, riemersi da fotografie commentate e reinventati negli acquerelli di Angela. Si parla dello spirito rivoluzionario dei linguaggi, dell’esperienza pulsante minata dal dramma della censura staliniana, di fughe notturne ed eterni ritorni nella terra sovietica; l’impressione è quella di un universo oramai sommerso che rivive nei dettagli di un interno come nella ruga di un volto, esercizio fine quanto estremo di filmare il processo crudele della memoria colta nel suo disfacimento, deteriorata dall’irreversibilità del tempo (della storia come della società). Un lavoro che appunto si sviluppa come archeologia di un’avanguardia, sdoppiandole entrambe nel tentativo di svelare l’immagine che c’è dietro a un’ideologia fino a pulirla e liberarla. La stessa esperienza fisica del viaggio viene rappresentata dalla caducità di immagini senza definizione (né tecnica, né filosofica), quasi a ritroso, come rilettura velata e vorticosa che trasforma l’intimità di un diario in espressione abbagliante del dispositivo filmico. Un dispositivo che a sua volta germoglia nell’arte dell’aneddoto, del particolare che racconta l’universale, disgregato nel dettaglio che coglie il nostro sguardo e infine riappropriato (anche criticamente) dal film nel proprio farsi. Non sono più gli archivi a parlare, ma anime viventi che ci raccontano delle forme e dei mutamenti di una possibile memoria collettiva e culturale insegnadoci ancora una volta a guardare partendo proprio dal loro rivedere e rivivere il tempo che fu. Questa è la possibilità del futuro evocato, ovvero la contemporaneità di un’archeologia d’avanguardia sull’avanguardia, far dialogare il passato con il presente, nella speranza di una traiettoria possibile che non si fermi all’oggi. 

 

Sarebbe interessante anche pensare a tutti i riferimenti teorici e linguistici di questo lavoro, parlare di tutti coloro che si sono impegnati nello scrivere attraverso le immagini di Gianikian e Ricci Lucchi, tornare sulle stesse parole dei protagonisti di questa specie d’avventura, ma allo stesso tempo ho come l’impressione di semplificarne l’unicità e il sentimento dell’opera stessa che, più di altre, va attraversata con la mente e con il cuore; di tradirne quasi una purezza di fondo in cui ancora ci è possibile specchiarci per riflettere sulla mancanza di senso dell’oggi, sulle stesse immagini che produciamo e che diventeranno l’archivio di un domani, sulla vacuità delle parole di un presente che paiono nemmeno conoscere l’esistenza di un passato. Riporto dunque solo le parole di Jean-Louis Schefer citate da Rinaldo Censi nel suo splendido ricordo della Ricci Lucchi: “L’archivio come materiale, come materia, non è il romanzo: esso brucia la sua finzione e come il romanzo, ancora più in fretta, brucia il reale. Il presente è divenuto immaginario, non la sua verità. Posizione un po’ simile a quella di un diario di scrittore occupato a bruciare il tempo della finzione.” Si perchè Angela, proprio durante la stesura di questo articolo, ci ha lasciati, e con lei se n’è andata un’esperienza difficilmente ricodificabile. Un percorso che ha reinventato l’idea avanguardistica stessa del catalogo e del diario, che nasce dall’esigenza di ridare vita alle immagini ultime (archivi privati, documenti di guerra, pellicole deteriorate) prima che ai grandi film, che ha reinventato per sempre il confine tra cinema e arte, tra lo spazio della sala e quello delle esposizioni, tra la proiezione e l’installazione. Mai troppo apprezzati e compresi in Italia, Gianikian e Ricci Lucchi sono alieni da un’idea superficiale di modernità perchè legati ad un loro personalissimo metodo di analisi della storia, che avviene attraverso lo svelamento stesso della camera filmica come performance privata di mani che accarezzano pellicole e ne estraggono la luce, ne diffondono le immagini a rischio di bruciarsi. Archeologi e filosofi, chirurghi ed esploratori, tutte definizioni che ben poco hanno a che fare tra l’esser registi (o artisti), invece avvezzi a una pratica fisica della cura del fotogramma come metafora delle cicatrici del passato, sempre leggermente asincroni e sfasati rispetto al loro (al nostro) tempo e con l’urgenza di parlare al domani, di creare qualcosa di simile ad una connessione o ad un flusso tra quello che stato e quello che sarà, perchè in/di mezzo ci sarà sempre l’uomo con le sue contraddizioni.

 

Rimane infine un ricordo personale legato alle impressioni alienate che ebbi nel vedere per la prima volta le loro immagini su Fuori Orario (RaiTre), molti anni fa. Mi pare fossero i Frammenti Elettrici programmati con Prigionieri della Guerra, qualcosa di incomprensibile per me allora, affascinato e sconvolto da come il film potesse essere la sua stessa deteriorazione materiale, dove l’immagine era detrito inseparabile dal proprio supporto come la storia personale inseparabile dal dramma universale, dove la macchina da presa si faceva strumento di misurazione della storia ed inevitabile punto di vista. Qualcosa forse in parte compreso dal me stesso di oggi, nei loro incontri a Milano o a Locarno, o nella consapevolezza che il vedere televisivo, l’immagine che passa da un visore, sia ormai diventato strumento di puntamento, supporto per l’uccisione, nuova macchina di morte (ecco l’immaginario del presente, senza verità). Forse è anche questo parte dell’inconscio ottico di Walter Benjamin che, come molti hanno fatto notare, ritrova nel cinema di Yervant e Angela la sua espressione più pura attraverso un collage continuo di frammenti e prospettive, una rielaborazione infinita di materiali (s)montati e scandagliati ossessivamente; un cammino nella progressiva liberazione che la storia esercita nei confronti della linearità di un tempo, che sopravvive nella memoria dolorosa e nel suo momento di lotta contro la propria estinzione.

 

Infine. “No, no. Sentimentale no. Secondo me questa gente che balla talvolta dentro al buio, perchè era notte, coincide con il momento attuale. Questa notte dove peggio di così... si muore. Cioè il buio, verso il quale vanno incontro loro, è il nostro buio in cui siamo cascati adesso. A me sembra di vivere un incubo oggigiorno. Un incubo: non usciremo più da questo tunnel.” Così Angela Ricci Lucchi in un’intervista di nove anni fa a proposito di Dancing in the Dark (montaggio di documenti filmati nelle feste dell’Unità romagnole, di poco successive alla caduta del muro, sempre quel 1989, appunto) - contenuta all’interno dell’Atlante Sentimentale di Donatello Fumarola e Alberto Momo. Lo sguardo nel tunnel, il nostro buio di una memoria ormai difficilmente capace di interrogare il futuro. Forse da qui dovremmo ripartire, da quel momento storico che stiamo ancora (ri)vivendo incapsulati all’infinito, e dalle radici reali dell’avanguardia che in Journey to Russia splende nelle sue pulsioni. Perchè rimane come lavoro provvisorio, un infinito/non-finito che nasconde, valore di ogni grande opera, ancora materiali e traiettorie dell’archivio che brucia la finzione e con essa il reale (per tornare alle parole di Schefer). Perchè di mezzo c’è sempre l’uomo e la sua scelta, spesso disumana, del guardare un altro uomo e così di voler accogliere o negare quello sguardo. Angela indissolubile con Yervant, con Danièle Huillet che la vita ha strappato a Jean-Marie Straub, nello stesso modo. Figure di un altro tempo perchè figlie di un altro tempo, che hanno speso tutta la loro esistenza nel tentativo di ritrovarlo, come atto profondo politico e di amore. Ora resta a noi, pensare ad un altro viaggio. Perchè, in fondo, il tempo lascia sempre lo spazio per un altro (ultimo) viaggio. Basta volerlo intravedere, nel senso pieno della durata.

 

 

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