"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Film di otto ore proiettato su schermi disposti in circolo, ognuno dei quali ne rimanda uno spezzone differente che s’interrompe per lasciar spazio a un altro, scelto secondo un ordine casuale, diverso da quelli proiettati sugli altri schermi: forse ha poco senso chiedersi cosa Singularity sia, se film o videoinstallazione o altro, dato che il suo senso sembra porsi non tanto nel suo essere quanto nel suo farsi, nel movimento fluttuante e vorticoso che circonda lo spettatore da parte a parte, come in un abbraccio. (Del resto, qual era per de Oliveira la "singolarità di una ragazza bionda" se non quella, appunto, di non essere, per farsi pura figura, immagine fantastica, ricordo di un sogno, riflesso del desiderio; e in questa molteplicità di attributi intangibili – molteplicità slegata da tutto tranne che dallo sguardo del suo amante-osservatore che le conferiva esistenza – si affermava la sua impossibilità a cristallizzarsi in una forma unica, singolare).
Ma al contempo c’è la sensazione che, nel passaggio delle immagini da uno schermo all’altro, qualcosa si perda negli spazi vuoti fra gli schermi, o che il film continui a essere proiettato sul nero interstiziale, invisibile ai nostri occhi, come se volesse sottrarsi. La singolarità si dà proprio nella sottrazione, nel venir meno di uno spazio, di un legame, di un’affezione che leghi i corpi, i significanti, le immagini. Ecco quindi spalancarsi una voragine dinanzi al nostro sguardo, e prendere le sembianze di una miniera d’oro, esemplare oggettivazione della tensione tutta occidentale a esaurire tutto ciò che è in superficie per poi, insaziabilmente, scavare il nulla – il nulla della fine della storia, dell’insensatezza della produzione capitalistica, della mancanza di senso nel linguaggio.
L’investigazione nomade di Serra pare trovare nell’eclissi del sacro l’origine di questo vuoto e tocca le tracce della sacralità perduta – la gloria dell’oro, la santità delle puttane, il mistero del disfacimento del corpo e della materia, l’aspirazione a perdurare oltre la consumazione e il decadimento, l’amore omosessuale, o gerontofilo, in pura perdita – ma il suo tocco è una delicata carezza, come a voler sfiorare le immagini con gli occhi, ben sapendo che la paura mangia l’anima (ci sono tutti qui, Fassbinder, Syberberg…). Nello schermo che introduce Singularity viene proiettato una sorta di trailer, una selezione di alcune immagini del film, con l’aggiunta, in sovrimpressione, di un drone che sembra mimare questo gesto carezzevole: la macchina guarda ma non giudica, scivola sulla superficie del mondo senza violentarla e si limita a rifletterla in immagini. E le immagini sfuggono a tutto, al nostro giudizio, alla staticità di una qualsiasi definizione dell’essere, alla mummificazione in categorie ordinatrici. Possiamo cercare di inseguirle, senza ovviamente raggiungerle: ma in questo moto, nella ricerca di un’immagine che sia rimando a un qualcosa al di fuori e al di là di noi, possiamo trovare una singolarità altra, e sentirci meno soli.