"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Lucky (John Carroll Lynch)

Monday, 27 November 2017 10:20

Vanna Carlucci

Exit

Una città senza nome, in Arizona, sembra essere quella zona di mezzo in cui il campo vuoto del deserto restringe ulteriormente il confine visivo tra vita e morte mentre il tempo sembra dilatarsi nello spazio. Qui, un cowboy novantenne ateo, si prepara al grande salto. Così John Carroll Lynch, al suo primo lungometraggio presentato in concorso a Locarno, mostra pezzi di vita, pelle, carne sconfitta dalla solitudine di questo cowboy sempre più prossimo alla fine;  il suo cappello e i suoi stivali da western accompagnano l’eco di un’armonica che suona Red River Valley e di nomi che hanno bucato lo schermo del cinema americano (John Wayne, per esempio) riproiettando in avanti il Mito di un certo cinema in cui il deserto diventa luogo di intercessione per fantasmi.

In questo passaggio d’anime invisibili, Lucky (questo è il nome del protagonista e il titolo del film) diventa un viaggio spirituale che, in realtà, accompagna l’attore Harry Dean Stanton al suo ultimo film; di lì a poco infatti Stanton, all’età di 91 anni, ci avrebbe lasciato scrivendo inconsapevolmente e definitivamente il suo testamento cinematografico (con ovviamente la coda di Twin Peaks: The Return), perché Lucky è Harry Dean Stanton e Harry Dean Stanton è Lucky, attore e personaggio a fare un organo intero, corpo caratterista, corpo umano: qui ombra e immagine si fondono nella gravità del suo sguardo per farne spettro trattenuto, rumore di fondo, rumore nelle immagini. Ogni corpo filmato infatti, traccia un segno e che in Stanton è sempre stato il tratto scavato della sua figura, voce morbida tra le sue ossa e poi gli occhi, due bocche spalancate sulla macchina da presa. Lucky e Stanton qui si incrociano come due destini che si riflettono e raccontano pezzi di vita in una pulsione fortemente autobiografica (l’inizio di carriera come attore in film western, il suo passato da cantante e veterano della Seconda Guerra Mondiale) e indagano sul tempo che resta, sul realismo che è una cosa, sulla vecchiaia sempre più accomodata ai bordi del letto, sulla verità della solitudine che dilata la percezione del tempo e che uccide più del fumo di sigaretta. Stanton è un performer e Lucky rappresenta sicuramente la performance della sua vita e, in verità, il tempo qui diventa prova di resistenza, esercizio instancabile, disciplina ferrea che Stanton pare vincere ogni giorno, prestante nella sua prestazione, con quei movimenti del corpo che rappresentano l’incipit di questo corpo-film per cui il luogo fisico del film diventa il corpo stesso dell’attore mentre una voce di fondo ci chiede “ma anche i film invecchiano”? e, mentre ci si prepara alla fine, “cosa ricorderemo” e cosa non verrà trattenuto? Quale immagine? Quale anima? e allora la scena più commovente del film è il viso di Stanton piegato dal tempo e dalla voce di tenebra di Johnny Cash mentre si arrende all’oscurità che non si dirada e alla speranza di una luce.

Ma Stanton, nella sua lunga carriera cinematografica, è stato anche personaggio lynchano e non è di certo un caso se David Lynch lo omaggia inserendosi in questo film nell’unico luogo possibile in cui il tempo invece pare smembrarsi per diventare ponte e punto estremo: in perfetto stile, il modo unico con cui Lyncha ci lascia sempre un enigma tra le mani; qui Lucky dialoga con lui di notte in un bar come due vecchi amici che si conoscono da circa trent’anni, lui che è disperato per aver perduto il suo migliore amico, la tartaruga di nome Presidente Roosevelt e che troveremo ad inizio e fine film come un Caronte che accompagna Lucky verso la fine. Ma esiste nel cinema una fine? e la morte? anche quando è vera il cinema pare fingerla così come Stanton non è ancora sul punto di attraversare quella porta rossa con la scritta Exit in bilico tra un’entrata e un’uscita di scena, visto che al di là non c'è niente, quasi a voler fingere la vita stessa.

 

 

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