"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Los versos de los olvidos (Alireza Khatami)

Monday, 27 November 2017 10:23

Michele Sardone

Rapsodie cilene

Alireza Khatami è regista di origine iraniana e ha girato in Cile il suo primo lungometraggio, Los versos del olvido (presentato durante l’ultima Mostra veneziana e vincitore del Fipresci come miglior esordio e del premio per la sceneggiatura nella sezione Orizzonti): basterebbero la sua erranza apolide e il richiamo all’oblio nel titolo per poterlo affiancare a Ruiz, cileno, esule e cantore della memoria e della dimenticanza. Se aggiungiamo poi che l’ambientazione del film di Khatami non è geograficamente localizzabile e che il fantastico e il passato convivono con il realistico e il presente fino a confondersi, allora la corrispondenza con Ruiz è fatta, e tutto quel che si potrà dire in più sarà superfluo.

Però è proprio quel superfluo, quella parte eccedente a interessarci. Los versos è ambientato per lo più in un cimitero e inizia con il racconto numero 997 di una serie di aneddoti dedicati alla morte: dove sono andati a finire gli altri 996, e da dove vengono? Probabilmente sono tornati, e si sono persi, nella stessa regione labirintica della Recta Provincia ruiziana, dove ogni racconto ne contiene un altro e questi un altro ancora, come infinite matriosche. Racconto dopo racconto, confluiscono nella Provincia immagini che riconosciamo come originarie da altri luoghi cinematografici: nel film madre e figlio inscenano un road-movie, e a vederli da lontano si potrebbero scambiare per Totò e Ninetto di Uccellacci e uccellini, o a due pellegrini de La Via Lattea; e il labirinto delle storie si complica ulteriormente nei meandri delle autocitazioni dei film di Ruiz, se si pensa che forse la madre è la stessa di Días de Campo (altro film autocitazionista: pensiamo ai fiammiferi giganti già presenti nella quarta parte di Cofralandes, altro paese immaginario così simile al Cile – ma ci fermiamo: la serie delle matriosche, come detto, è potenzialmente infinita, meglio tornare a madre e figlio), con il figlio che le manda lettere da Antofagasta, la stessa città di La noche de enfrente...

Come fare allora una genealogia ruiziana delle immagini nel film di Khatami se già quelle di Ruiz si fa fatica a inquadrarle e definirle? Prendiamo ad esempio l’immagine ricorrente della balena de Los versos: la sentiamo evocata alla radio, la scorgiamo come graffito, la vediamo addirittura volare. Forse proviene dalle favole di Pinocchio-Pinochet, mentitore e burattino degli americani, come veniva soprannominato dai suoi oppositori. Oppure la balena potrebbe essere il grosso pesce, simbolo di rinascita, che aveva ingoiato il biblico Giona: per analogia, potremmo accostarvi la scena del custode del cimitero che per sfuggire alla morte si lascia inghiottire dai budelli labirintici di un immenso archivio per poi emergere, quasi miracolosamente, da sotto un masso posato al suolo. Già un’altra volta era sopravvissuto ai suoi sicari, mandati dal regime dittatoriale per cancellare le tracce della propria cruenta repressione, e si era ritrovato a vagare in un deserto surrealista, con rocce a forma di dita che affioravano dalle dune.

Ecco, forse la persistenza della memoria rivela un ostinato attaccamento alla vita, il desiderio di non voler lasciar andare definitivamente quel che è dato per morto (e per questo la retorica comune, che invece è mortalmente vitalista e nuovista, stigmatizza l’approfondimento nel passato come perversione necrofila). Ruiz e Khatami danno due definizioni dell’oblio una contigua all’altra. Nella Recta Provincia si dice che l’oblio è un ricordo amputato. Ne Los versos, che l’oblio è dimenticare di dimenticare. Come dire che l’amputazione operata sulla nostra memoria è data dalla nostra incapacità di accorgerci di aver dimenticato qualcosa.
Oppure ci si può illudere di non morire mai del tutto: un corpo morto continua a progredire nel suo decadimento, a raccontare qualcosa di sé, e nel racconto in qualche modo vive, ed è ancor più vivo se quel che racconta non è verità bensì leggenda, o il lieto fine di una triste storia. Attraverso il racconto, che è innanzitutto rito evocativo e magico, prendono forma le immagini, che iniziano a danzare come fantasmi. Nessuna immagine è davvero originale: dall’archivio della nostra memoria ne attingiamo altre, affini a quelle evocate, che utilizziamo come modelli per formare le immagini del racconto: e così, di proiezione in proiezione, proteiformi le une alle altre, creiamo immagini e da queste altri racconti.

 

Abbiamo esagerato con le digressioni? Certo, ma ci sentivamo legittimati a farlo: nel suo Stato immaginario, come capo dell’opposizione al regime al potere Khatami ha nominato Tarkovsky, che compare in alcuni volantini elettorali (con lo slogan «El pasado pasará»), e Bergman come ex presidente deposto.

 

 

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