Bug
Erik Negro
La superficie è l’orologio, colmo di led, tendente all’infinito o a Moebius come all’ossessiva chiusura di uno spazio irreversibile; un caos del flusso dei pensieri ricalibrato sulla filosofia del nulla. È il Big-Bang (o il bug) del digitale, il momento in cui la conversione sarà compiuta, il punto di partenza per Isiah Medina nella sua vorticosa razionalissima deriva, sulle classi, sulla povertà, sulla contemporaneità, sul movimento, sul baratro, sull’inconscio del reale. Il cut diventa improvvisamente arma eterea e trasformativa, invisibile come tutti coloro che stentano a sopravvivere nel vortice truce del terzo millennio; le immagini sbocciano in un flusso d’integrazione della nuova soggettività tecnologica, fusione di ogni codice, formato e supporto. La narrativa è affidata alla documentazione (al rapporto tra i due amici che lo stesso Medina condensa prima in ritratti e poi in monologhi), ogni fotogramma ed ogni suono sussiste a se stesso perchè continuamente scorporato dal contesto, ma parte del dis-ordine della vita tra politica, amore, scienza e arte. Lo spazio politico del cinema allora non è altro che l’atto dello scarto umano al codice binario, del ciò che ancora sfugge. Esistere necessita l’autodeterminazione, e se il nichilismo della determinazione esterna a noi stessi pare definire il segno di un’umanità distante e di una era che si chiude, è il momento di aprire nuove strade, di tentare nuovi esperimenti. Proprio come fa questo 88:88.
Il flusso è indefinibile e strutturato sull’addizione simbolica di fotogrammi, tendente all’infinito come alla reiterazione, in cui lo spazio del reale si struttura nella definizione sempre diversa dell’intervallo. Il mondo sopravvive e si incunea nello spazio tra zero a uno, come tutto lo spettro dei colori si determina tra il nero ed il bianco. Ci sarà sempre qualcosa che resta fuori dall’inquadratura o che viene tagliato al montaggio, sta alla soggettività trovare un ordine o almeno restituire una libertà nelle associazioni. In un’epoca in cui siamo costantemente riflessi e ripresi in immagini, la separazione suono-immagine risponde e coincide a quella della realtà, la stessa tra due persone; la definitiva messa in dubbio dei sensi attraverso strumenti linguistici del mezzo resi antropomorfi. Il dubbio e la ragione nel separare ciò che apparentemente è (col)legato, regolano continuamente il rapporto soggetto/predicato/oggetto formando la stessa frattura in cui nasce il cinema ed in cui esso possa esperire una nuova forma cartesiana di prova dell’esistenza.
88:88 cerca essenzialmente se stesso in una serie infinita di segni (filosofici e matematici soprattutto) in cui il cinema costantemente si interroga sul proprio statuto, partendo dalla vita nuda, dal materiale sedimentato nell’anima di un gruppo di ragazzi oggi, attraverso una continua sintassi di base dell’immagine nel/per il futuro. Un film che è a suo modo pieno di errori, un esperimento sempre sull’orlo del fallimento, un’odissea che ambisce a far vedere esattamente ogni cosa che vedremo, segnando al tempo stesso grammaticalmente il punto zero su cosa il cinema potrebbe essere, o almeno quanto e come potrebbe ancora essere. Probabilmente è e sarà altro ancora, anche rispetto al lavoro teorico di Medina stesso, perchè l’intimità è reale, strappata alla vita nel margine tra la frustrazione e la tristezza. L’immagine, nella sua continua rifrazione digitale, distrugge il codice per restituire l’atto dell’esistere. E così anche il digitale nelle sue continue ellissi d’umanità, pare aver trovato la sua dignità, per una delle primissime volte. Lo spazio è colmo, il tempo è definito. Suonerà la sveglia dell’infinito, dobbiamo scendere in strada e ritornare a guardare.