FOLLIA E METODO
Il titolo dell’episodio iniziale di The Knick, trasmesso per la prima volta nell’agosto 2014, era Follia e metodo, due termini che non potrebbero definire meglio lo stile e il senso di questa serie - stagione 1 e 2 - sorprendente e unica per la sovversione con cui è stato minato dall’interno lo stesso concetto di serie televisiva, per trasformarlo nel paradigma di un cinema “organico” e cellulare, largamente sperimentale, che scardina i confini narrativi dei singoli episodi e ricompone le immagini ambigue e sfuggenti di un’intera epoca in un vasto mosaico di vertiginosa portata.
Steven Soderbergh, che, a partire da Erin Brockovich (2000) aveva poi esplorato con Contagion (2011) e Side Effects (2013) le tematiche aggrovigliate e le implicazioni sociali, geo-politiche ed economiche della medicina, mette qui, al centro della scena, l’austera struttura del Knickerbocker, un grande ospedale di New York agli albori del ‘900, per tracciare un itinerario netto e dettagliato all’interno di un passaggio storico particolarmente intricato, quando le continue scoperte della medicina si intrecciavano con quelle scientifiche e con la rapida ascesa di un nuovo mondo industriale, che all’incalzare del progresso univa la brutalità dei propri interessi in gioco.
Non è la prima volta che Soderbergh lavora analiticamente su un campo determinato - il colore dei soldi e la tensione del gioco dei tre Ocean, le multinazionali di The Informant, la rapacità delle case farmaceutiche e il potere medico di Side Effects, la deviazione dei servizi segreti di Knock Out - riuscendone sempre a disegnare, dall’interno, una mappatura minuziosa e illuminante, anzi, lo si direbbe soprattutto un analista-teorico teso a rimodulare in immagine i lineamenti fondamentali di una critica economico-politica applicata a diversi sistemi dati, un archeologo dei saperi e dei poteri che vuole arrivare a comprendere e a mettere in luce, strato dopo strato, un’immagine dopo l’altra, in dettaglio, la violenza, l’opacità e le contraddizioni delle forze che guidano gli uomini e le loro azioni.
Molto della grandezza di questa serie consiste nella passione e nel lavoro di ricerca che la sostiene, nulla infatti in The Knick 1 e 2 si dà come invenzione gratuita o casuale; Jack Amiel e Michael Begler, i due co-autori, per costruire, ad esempio, il personaggio del dott. John Thackery, chirurgo e tossicomane, interpretato da Clive Owen, si sono ispirati alla vita reale di un certo dott. William Stewart Halsted, un medico brillante, che faceva un uso massiccio di cocaina ed esercitava agli inizi del ‘900 all’ospedale John Hopkins di New York, noto tra l’altro per aver sviluppato alcuni protocolli, usati ancora oggi in chirurgia, ma anche il medico afro-americano, Algernon Edwards, uno dei personaggi più intensi della serie, si ispira, in parte, a Daniel Hale Williams, uno dei primi medici afro-americani che esercitarono la professione a Chicago, verso la fine dell’Ottocento. Forse è proprio la presenza dei particolari accuratamente documentati o presi direttamente dalla realtà, come certe location o determinate procedure come ad esempio l’elettrificazione dell’ospedale in The Knick season 1, a rendere la serie così singolare e viva, o forse, a colpire è l’ambiguità come qualità intrinseca delle sue immagini - Soderbergh ha spesso lamentato il fatto che oggi non sia più considerata un pregio, al cinema -, mentre alimenta da sempre il suo lavoro, trovando un punto di incontro, da questo punto di vista, con il cinema di Roberto Rossellini, un cineasta che, analogamente a Soderbergh, vedeva l’ambiguità come inesauribile ricchezza di senso, come infinita disponibilità e apertura del testo filmico alla pluralità delle interpretazioni.
In un’intervista di qualche anno fa, Soderbergh, nel dichiararsi stanco della tirannia di certi clichè narrativi da rispettare, parlava della necessità di trovare una grammatica nuova, che era sicuro esistesse: “…da qualche parte, là fuori”. Paradossalmente, sembra quasi che sia stata proprio la struttura rigida del medical drama che sostiene The Knick, a permettere a Soderbergh di spingersi oltre i limiti imposti, fino a scoprire, creativamente, il nuovo. Come, ad esempio, un certo uso sistematico e organico del piano-sequenza, davvero ri-modulato in chiave rosselliniana, come “figura” privilegiata per aderire alla materialità dell’esperienza, presa nella flagranza del tempo reale, che acquista forza e visibilità soprattutto nella seconda stagione della serie, in cui Soderbergh riesce a raggiungere una maggiore profondità, mentre cominciano a mostrarsi gli elementi di questa grammatica nuova, nelle forme di una sperimentazione linguistico-visuale che in un certo senso rispecchia lo stesso modus operandi del dott Thackery, che, sempre in bilico tra follia e metodo, trasforma l’ospedale, il suo studio, la sua stessa vita, in un laboratorio permanente.
Oppure, lo stato di magnifica eccezione di The Knick è dovuto a un fiancheggiamento continuo della pittura, attività parallela prediletta, che, fin da ragazzo, Soderbergh ha continuato a praticare, oscillando continuamente, come una volta ha dichiarato, fra astrazione e ritratto. Certo, solo nell’immaginare come sono state attuate le riprese dei singoli episodi, dove è sempre lo stesso Soderbergh che sistema le luci, che filma con una telecamera digitale - la Red, già usata per Che, maneggevole ed estremamente sensibile alla luce, che possiede quasi la stessa leggerezza di tocco di un pennello -, e che, infine, si occupa del montaggio, non si può fare a meno di rivedere in lui la figura di regista-artigiano, oggi praticamente scomparsa, presente nel periodo d’oro di Hollywood, quando un regista poteva impiegare e mettere a valore un mestiere quanto mai versatile a tutto campo; o, risalendo ancora più indietro nel tempo, Soderbergh somiglia a un artista rinascimentale, che sa attraversare, padroneggiandoli integralmente, i campi più disparati del sapere: pittura, fisica, chimica organica, ingegneria, e li sa trasportare, trasformati, in un nuova configurazione, in una declinazione spazio-temporale materialistica e concettuale.
Ci sono intere sequenze che tolgono il respiro, a partire dal primo episodio della seconda stagione, quando il dott. Gallagher va a trovare il dott. Thackery nell’ospedale in cui si sta disintossicando, e l’incontro tra i due viene filmato dal basso verso l’alto, con un particolare rilievo dato al soffitto. Sembra infatti che Soderbergh ami in modo particolare filmare i soffitti - basti ricordare l’innesto in una sequenza della seconda stagione della serie, di un particolare soffitto a cupola, un mosaico composto da piccole tessere di madreperla, scoperto per caso e in seguito debitamente filmato in un ristorante del Village - e in effetti in The Knick si incontrano spesso queste inquadrature dalla prospettiva schiacciata, opprimente, senz’aria, che fanno pensare a certi interni di Citizen Kane di Welles, per risalire, fino a David W. Griffith, e che, attraverso questo uso chiaramente politico dell’inquadratura, rendono improvvisamente visibili i rapporti di potere e di subalternità, come avviene anche nell’ultimo episodio della seconda serie, durante il confronto tra i due fratelli Robertson, Cornelia ed Henry, filmato al limite dello strapiombo delle scale, in una sequenza opaca, oscuramente minacciosa, degna di un John Stahl.
In questo senso, dello svelarsi progressivo, cioè, di una microfisica del potere, non è certamente una coincidenza casuale che per allestire molti degli interni di The Knick, gli scenografi abbiano preso spunto dalle fotografie di alcune dimore della dinastia degli Hearst a New York. Forse si potrebbe guardare ad entrambe le stagioni di The Knick come ad un magico accordo tra ritratto e astrazione, ovvero tra il presentarsi di alcune figure e il puro fluire di un tessuto visuale discontinuo e stupefacente, tra personaggi ognuno dei quali si fa portatore, di volta in volta, di un’istanza particolare, politica, identitaria, morale e un impressionante tracciato sommerso, ma sempre in movimento, fatto di ellissi, sospensioni, sfocature, attese, pressione e insistenza diffusa del fuori campo.
Droga, progresso scientifico, nuovi avanzamenti nella medicina, sviluppo economico selvaggio, insorgente questione razziale, apparizione del cinema come riproducibilità tecnica e come dispositivo, primi tentativi di psicoanalisi, il denaro, le visioni spettrali, sono queste le questioni in gioco lungo tutta la serie, le spinte interne che muovono l’affollarsi di una commedia umana, che Soderbergh osserva con l’occhio di un cineasta-scienziato che, alla fine, sta conducendo un’indagine clinica principalmente concentrata sul registro dello sguardo, dell’osservazione.
Era stato Foucault a paragonare lo sguardo clinico a “uno sguardo che brucia le cose fino alla loro estrema verità”, e non a caso soprattutto nei singoli episodi della seconda serie compaiono così di frequente visori, lenti di ingrandimento, macchine per vedere, tutte protesi che contribuiscono a guidare i medici dell’ospedale durante le operazioni a vedere di più e più a fondo, come il dott. Thackery che cerca ad un certo punto di praticare l’ipnosi su un paziente ponendogli davanti al volto un disco sul quale è dipinto un occhio.
Così, come assume una funzione specifica e di estremo rilievo la presenza della luce elettrica - di impronta kubrickiana, da un lato, nel senso di esperienza interiore, di shining, di “luccicanza”, dall’altro, in chiave di puro espressionismo astratto, (p.e. le installazioni di tubi al neon di Dan Flavin) -, sempre in gioco nei film di Steven Soderbergh, nella disseminazione delle lampade, che tracciano sentieri luminosi all’interno degli ambienti, il cui ruolo, molto più che essere parte dell’arredamento e illuminare le scene, è in realtà soprattutto quello di visualizzare una traccia interiore, la luce di un pensiero. Mai forse come in The Knick Soderbergh è riuscito a tracciare una storia dell’occhio, così nettamente autoriflessiva e così profonda nella sua ammaliante ambiguità.
La bellezza assoluta della colonna sonora di Cliff Martinez è principalmente data dal fatto che si muove lungo tutta la serie come un corpo estraneo, in apparente aspro conflitto con le immagini, anche se, di fatto, le incontra su un comune terreno di sperimentazione. Se è stata di Soderbergh, che con Martinez collabora spesso, dall’epoca di Sex, lies and videotape, l’idea di usare per The Knick la musica elettronica, in modo da creare una sorta di tensione permanente nei confronti dell’epoca storica rappresentata, è Cliff Martinez che, nella sua elaborazione ha insistito soprattutto per far emergere le ombre, il materiale oscuro, trovando contemporaneamente un rapporto insolito, ma reale, tra rivoluzione industriale, rapido progresso della medicina e della scienza e uso del suono elettronico. A partire dall’impiego reiterato delle terzine, monta a poco a poco la costruzione di una sorta di scultura sonora, in cui vengono adoperati i suoni a bassa frequenza, che poi si fanno salire, in crescendo, per concludere, spesso con l’uso del reverse, un suono al contrario.
Ci sono intere sequenze in cui alcuni temi in off si sostituiscono completamente ai suoni e ai rumori dell’ambiente circostante, (accade specialmente in quelle che seguono i percorsi di Thackery), con un effetto di singolare straniamento, che indica tra l’altro con precisione chirurgica il suo stato percettivo e mentale quasi sempre alterato dalla droga.
L’uso del sintetizzatore elettronico, combinato, in modo insolito, con gli strumenti in cristallo con cui Martinez da tempo lavora, punto di incontro con le sperimentazioni della musica concreta contemporanea, contribuisce in modo straordinario alla perturbante, seriale bellezza di questa colonna sonora che anche quando si conclude, non smette di ossessionare a lungo, internamente.