"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

Speciale ODYSSEY 2021

Arturo Lima, Edipo Massi

(in ordine di emersione)

Vivement dimanche! (F. Truffaut): più chiaro ora il legame con Siodmak. Saggezza e ironia da ultimo film. Andrebbe visto insieme a La femme d’á coté. Fanny Ardant porta con sé la lezione fino a L’odore del sangue.

 

A Dangerous Method (D. Cronenberg): “Loro non sanno che stiamo portando la peste”, Freud a Jung quando ormai la statua della libertà è in vista.

 

High-Rise (B. Wheatly): strano come Ballard, o meglio la parola, perda molto meno tempo in dettagli e lasci molto più spazio fra le immagini.

 

Monica e il desiderio (I. Bergman): sesso come allucinazione, il cinema stesso come fatto sessuale. L’aria, il vento. Tutto brucia, acceca.

 

Two in the Shadow (Mikio Naruse): si dovesse dare un’idea assoluta di abisso, sarebbe questo film. La macchina solitaria, ferma all’incrocio.

 

Invasión (H. Santiago): affascinante il tourbillon paranoide, ma Nadie dijo nada di Ruiz, senza essere così esplicito, è molto più inquieto e disperato.

 

Metropolitan (W. Stillman): ha il sapore amaro, il mezzo sorriso malinconico di una piccola cosa andata, anche se purtroppo è il primo di decine di operette slavate hipster che verranno e che tuttavia supera ancora adesso per cattiveria.

 

The Pleasure of Being Robbed (J. Safdie): questo invece è la versione punk di quanto sopra, e ancora funziona.

 

Perfumed Nightmare (K. Tahimik): in fondo varrebbero la pena solo film così, senza inizio né fine, che si auto-ipnotizzano smarrendosi.

 

Night Is Short, Walk on Girl: ah, perdersi appunto, freneticamente.

 

San Pa + Osho (Netflix): la struttura di questi documentari tutti uguali è orribile, ma per differenti motivi (ovviamente personali) ce la siamo goduta a vederli.

 

Portrait d’un jeune fille en feu (C. Sciamma): sopravvalutato, su.

 

Venga a prendere un caffè da noi (A. Lattuada): a ogni scena rompe le regole, non c’è un personaggio o un dialogo che coincide con quello che ti aspetti, una boccata d’ossigeno al vetriolo. Ugo Tognazzi commovente.

 

One Cut of the Dead (Shinichirou Ueda): non solo simpatico, ma con qualche idea alla fine di pervertire il mezzo stesso (genere o macchina per fare film che sia).

 

I May Destroy You: se non si fa caso al lato ideologico (non è facile), i corpi e l’afasico continuo ritorno sul luogo o sui luoghi del delitto meritano.

 

Le ombre degli avi dimenticati (S. Paradjanov): servirebbe una metafora che spieghi la colata lavica di queste immagini e, comunque, non basterebbe. Andrebbe scritto un libro sui film che puramente si imprimono, che non devono essere ricordati o richiamati alla memoria, semplicemente tirati fuori di tasca alla bisogna volto per volto.

 

Orfeo (J. Cocteau): Attenzione all’inizio di questo capolavoro (perché tutti ricordiamo l’ à rebours dentro/fuori lo specchio del finale): praticamente anticipa tutta la nouvelle vague, oppure segretamente i ragazzi dei cahiers hanno passato i primi dieci film a cercare di rifare le scene di Orfeo nel bar parigino.

 

I film di Jean Painlevé: belli (servono per capire Ballet aquatique di Ruiz).

 

Ordet (Th. Dreyer): conosciamo una coppia che aspettava una certa notizia e lo ha rivisto la sera prima uscendone sconvolta e collegando il giorno dopo il primo piano della bambina-angelo e la resurrezione all’esito positivo del test di gravidanza. La ragazza - è stata lei a unire i fili - ora quando può cerca di dire a tutti che questo resta il più bel film della sua vita.

 

Racconto di primavera, Racconto d’inverno, Il raggio verde (E. Rohmer): la socraticità del caso è l’unica cosa più inspiegabile e emozionante della struggente malinconia di questa triade.

 

Herr Bachmann and His Class (M. Speth): per chi ha voglia di sorprendersi di sapere dove sono germogliati i semi piantati da Frederick Wiseman.

 

What Do You See When You Look at the Sky? (A. Koberidze): col tono di una sonata per fantasmi e col piglio filosofico di una partita di calcio estiva. Una malia che addolcisce il tempo e curva lo spazio. Brigadoon anomalo. Racconto di fate. Fantasy politico. La realtà si compiace della propria aritmia, stupenda nel suo desiderio di non essere.

 

Introduction (Hong Sangsoo): film così poetico, che sogna di essere un aforisma.

 

Bad Luck Banging or Loony Porn (Radu Jude): un documentario in forma di fiction (entrambi pornografici) sul collasso di un’umanità intera (europea). Sarebbe piaciuto a Karl Kraus.

 

Wheel of Fortune and Fantasy (Ryusuke Hamaguchi): Hamaguchi, che potrebbe essere un sublime scrittore, ha l’ironia di fare film (Kiyoshi Kurosawa infatti lo fa scrivere). Racconti morali, profondamente rohmeriani. La vita è una conversazione fra il caso e il desiderio.

 

Petite Maman (C. Sciamma): un bellissimo piccolo film di fantasmi, un giro di vite alla Henry James. Finalmente senza presunzione.

 

Limbo (Soi Cheong): nostalgia dell’epopea sanguinaria senza regole di Hong Kong. Lo scenografo wellesiano di questo film è un genio.

 

Albatros (X. Beauvois): qualunque cosa ricordi Chabrol ci deve interessare.

 

Natural Light (D. Nagy): film di concentrazione massima, di massima durezza e intensità (che è anche il suo difetto). Qui va segnalato il direttore della fotografia Tamás Dobos. Soldati e cielo fatti di fango.

 

Azor (A. Fontana): il virus della cospirazione, o meglio il colore dei soldi tra Svizzera e America Latina.

 

The Beta Test (J. Cummings): schizofrenico, frenetico, cerca l’esaurimento nervoso dell’immagine. Misteriosi omicidi alla Easton Ellis. Sogni a occhi aperti depalmiani. Hollywood al collasso. Solo, non è Paul Schrader. Sesso anonimo prendere o lasciare (sul questionario barrare la casella face sitting).

 

Hygiène sociale (D. Coté): Antonin, il freak pandemico. Sta lì, all’aperto, igienicamente distante dalle donne che lo interrogano. Aurore, la ragazza bohémien che è un po’ il doppio del dandy Antonin, sprezzante e illogica, è filmata con dei piccoli camminamenti laterali e un piglio documentario che tutto sono tranne che straubiani. È però vera negli atteggiamenti e più sicura nella posizione politica (studia teologia e lavora in un McDonald). Povero Antonin, prova a scassinarle la macchina… Fa morire dal ridere e, al tempo stesso, alza il livello di disperazione. Cotè, al solito, ci sguazza. Tutto un teatro dell’assurdo, dialoghi deliranti, il più lucido è lo stolto che fa di tutto per confondersi. Poveraccio Antonin, voleva fare un film ma se lo è solo immaginato! (La risposta in realtà c’è. Coté ha dichiarato che al tempo in cui aveva scritto, per poi abbandonarli per qualche anno, i dialoghi del film, stava leggendo tutto Robert Walser).

 

District Terminal (B. Yadegari, E. Mirhosseini): lucidamente drogato, stupendamente fantascientifico. Racconto del virus della scrittura. Peyman è il Bukowski iraniano (attenzione ai poster sulla parete della sua stanza).

 

Moon, 66 Questions (J. Lentzou): l’abbraccio finale tra padre e figlia (c’è un lavoro, se si arriva a questo).

 

Nous (A. Diop): il film è bello e la regista fa paura per coscienza di classe.

 

Rock Bottom Riser (F. Silva): colata lavica di materiali eterogenei, meglio quando esplosi nella colonna sonora che nelle brevi messe in scena. È il fare saggistico di tanto cinema artistico contemporaneo… con più cuore di altri, comunque. Bello che non sia un cineasta ma un astronomo, un geologo e un etnografo.

 

Le monde après nous (L. Ben Salah.Cazanas): finalmente un po’ di ironia sugli scrittori (francesi).

 

Brother’s Keeper (F. Karahan): Conversazione ininterrotta con Dov’è la casa del mio amico?

 

The First 54 Years (A. Mograbi): se finalmente si vuole affrontare il problema, si deve sapere che la verità risulterà troppo dura per Israele.

 

Juste un mouvement (V. Meessen): film appassionante e intelligente sul giovane scrittore africano rivoluzionario che spiega la lotta di classe a Jean-Pierre Leaud ne La Chinoise. Da vedere.

 

La veduta luminosa: (F. Ferraro): ancora uno scrittore che scrive, anzi non scrive, per dissiparsi (e sparire nella foresta).

 

Being John Malkovich + Adaptation (S. Jonze): l’interesse è soprattutto per C. Kaufman, ma sono tipici casi di film che insorgono contro il contesto in cui sono stati realizzati e resistono.

 

Racconto d’estate (E. Rohmer): ripresa del discorso, visto tutto con un sorriso di gioia.

 

Fellini Satyricon + Roma + Il bidone (F. Fellini): rivisti per capire meglio il lato fantascientifico e durissimo, quasi funereo. Onestamente sono film inarrivabili, escludono tutto il resto.

 

Cute Girl (H. Hsiao Hsien): dolce campagna degli inizi, passano i primi treni. Una goduria.

 

La signora di tutti (M. Ophüls): probabilmente qui c’è uno dei primi piani più belli di tutta la storia del cinema.

 

Anomalisa (C. Kaufman): mah, a rivederlo delude.

 

Terrorizers (E. Yang): quando si cerca la bellezza, oppure quando si dice, di qualcuno, che ha uno sguardo sulle cose. L’aria stessa qui sembra avere dei raccordi, ogni cosa è toccata dalla mano del maestro, trasparente eppure invisibile.

 

Le Revelateur (P. Garrel): chissà perché questo film, più che piacere, continua a inquietare. Il bambino macchina da cinema vivente che apre in due il mondo, è potente almeno quanto l’illusione che si porta dietro (del cinema stesso) ed è già pronto a mutare e a perdere l’innocenza (neppure mai si ricorderà di questi momenti di possessione assoluta).

 

La peau douce (F. Truffaut): film duro, disperato. Una cosa non tanto studiata - e che apprezziamo in Truffaut - è l’odio che mostra per certi suoi personaggi. Film anti-romantico per eccellenza.

 

Sound of the Mountain (M. Naruse): il dialogo finale:

(Il padre): È così grande.

(La moglie del figlio): Una vista ben disegnata fa sembrare le cose più grandi.

(Il padre): Vista?

(La moglie del figlio): Non conosce questa parola? È la prospettiva.

 

Justice League Snyder’s Cut (Z. Snyder): Però. Niente male. Molto lugubre.

 

Agostino d’Ippona (R. Rossellini): domanda senza risposta a noi stessi del perchè Rossellini si concentra sull’Agostino ormai in carica e sulla sua azione politica. Sublime film, soprattutto per quello che non dice.

 

Francesco giullare di Dio + Il Messia (R. Rossellini): confronto tra le nuvole della scena in cui Francesco incontra in una notte di luna il lebbroso e quelle del finale con la corsa di Maria verso il sepolcro vuoto.

 

Mad Max + Mad Max 2 (G. Miller): desiderio di rivederli. Sono un po’ come armi affilate, non si arrugginiscono. Non ricordavamo l’inizio del secondo, sembra un documentario di fantascienza che appunto documentarizza, rivomitandolo velocemente in bianco e nero, il capostipite.

 

Coup de Torchon (B. Tavernier): l’unico, insieme a Kubrick, che ha capito la grandezza di Jim Thompson.

 

Ziegfeld Follies - ep. Limehouse Bues (V. Minnelli): sprofondamento, sfondamento dello e nello spazio, scelta visionaria di trasformare una caduta libera in un movimento abissale circolare.

 

Small Axe - ep. Lovers Rock (S. McQueen): dopo un po’ la struttura politico-ideologica annoia (essendo d’altra parte McQueen un regista noiosissimo), ma l’episodio in questione è potente libero e folle, difficile da fare e in qualche modo miracoloso.

 

Taipei Story (E. Yang): scritto insieme a Hou Hsiao Hsien che ne è anche il protagonista. Il film di una generazione intera, il capolavoro. Parte da Ozu e arriva a qualcosa di mai fatto prima. La scena degli amanti sul terrazzo che piano piano vengono assorbiti dalla città, diventano liquidi. Una città al suo massimo grado di sviluppo che coincide con la definitiva perdita d’orientamento.

 

Le Pont du Nord (J. Rivette): famoso film con una coda in Le Jeu de l’oie di Ruiz. Remake paranoico di Paris nous appartient. Forse i personaggi più folli e unici pensati nella storia del cinema. Pensare a Bulle Ogier e alla mai troppo compianta sua figlia Pascale insieme sui ponti di Parigi, è quasi insostenibile. È uno di quei fili che il cinema tende verso l’aldilà e il cui mistero troppo grande va oltre il piacere assoluto della visione. Lascia inermi. Gli altri partecipanti - Pierre Clementi e Jean-François Stevenin - allungano la fila ininterrotta di cose semplicemente geniali.

 

Les Nuits de la pleine lune (E. Rohmer): stiamo inseguendo Pascale Ogier, disperatamente.

 

Kung fu, Master (A. Varda): Per esempio la Varda capisce subito quello che in quegli anni stavano facendo Rivette e Rohmer. E ci aggiunge quella visione in più, la visione della differenza, qualcosa di obliquo e più gioioso nei confronti della vita (Jane Birkin + Charlotte Gainsbourg, così personali nel farsi filmare, completano l’opera).

 

The Man from London (B. Tarr): persi, ossessionati da Chabrol rivediamo come Tarr ne esplora con violenza il lato perverso, sudicio.

 

Black Hat (M. Mann): versione integrale o meno, questo resta un dei più bei film incompiuti di sempre.

 

All the Vermeers in New York (J. Jost): davvero, a rivederlo, un film minimo.

 

 I ragazzi di Fengkuei (H. Hsiao Hsien): contiene probabilmente una delle sequenze più belle della storia del cinema, qualcosa di semplice che tuttavia nessuno fino a quel momento aveva mai osato fare. I ragazzi entrano di soppiatto a una matinée dove danno Rocco e i suoi fratelli. Uno di loro, il protagonista, si perde di fronte alla coscia erotica di Annie Girardot. Stacco. Campo da baseball, suo padre viene colpito in testa dalla pallina e il colpo lo lascerà tutta la vita intontito su una sedia. Nessuno può dire cosa collega nel suo pensiero le gambe della Girardot al tragico evento che ha cambiato la vita della sua famiglia. Nessuno mai ha fatto vedere la cosa lancinante che fa il cinema alle persone.

 

A Summer at Grandpa’s (H. Hsiao Hsien): non sappiamo se qualcuno ha mai notato che questo film anticipa Il mio vicino Totoro di Miyazaki.

 

Diary of the Dead (G. A. Romero): rivisto per essere sicuri che fosse chiaro a tutti il legame tra comunicazione e morte almeno quanto lo era per Romero.

 

La tartaruga rossa (M. Dudok de Wit): visto insieme a un bambino che a un certo punto ha dichiarato serissimo: “Adesso se questa tartaruga muore, io me ne vado”.

 

The Wasp Woman (R. Corman): sempre divertentissimo (evitiamo considerazioni sociologiche sulla posizione della donna al comando).

 

Escape from New York (J. Carpenter): di solito, al compleanno di uno di noi due, ci facciamo un regalo. Questo è il regalo più bello da molti anni (abbiamo discusso se si tratta dell’undicesima o della dodicesima volta che lo rivediamo).

 

Dust in Wind (H. Hsiao Hsien): si ripete il ripetersi delle stagioni, variano le variazioni, senso disperato della vita.

 

Escape from L.A. (J. Carpenter): coda al regalo di compleanno, film paurosamente geniale.

 

The Killing (S. Kubrick): Jim Thompson scrive già un’arancia meccanica, Kubrick la trasforma in una geometria abbacinante.

 

Good Men Good Women + Goodbye South, Goodbye (H. Hsiao Hsien): sprofondiamo e galleggiamo allo stesso tempo.

 

 

 

Il fascino discreto della borghesia + Viridiana + Tristana + Il fantasma della libertà (L. Buñuel): il segreto del surrealismo è nella trasparenza. Essere consci con rabbiosa allegria dell’illusione di vivere. Giocare col paradosso del tempo per fare esperienza del vuoto, stare discretamente sulla frequenza dei fantasmi, saltellare tutte le volte che il non senso della vita si mette in testa di assegnarsi qualche significato, gettarsi nelle crepe della realtà (se non è già esplosa) e fingere che l’esistenza esista.

 

Godzilla vs. Kong (A. Wingard): no comment (anche se l’amorevole battaglia finale…).

 

Un mondo di marionette (I. Bergman): si apre anche quando si chiude in se stesso.

 

Femmine folli (E. von Stroheim): diluvio universale, tempesta perversa di fango, prodigio assoluto con l’idea fissa del cinema.

 

Notorious + Shadow of a Doubt, Spellbound (A. Hitchcock): si, li stiamo collegando tutti, Buñuel, Stroheim, Hitchcock. Portatori di trasparenza, visionatori dell’aldilà.

 

Il codardo (S. Ray): un Satyajit Ray vicino a Stroheim.

 

Le Journal d’une femme de chambre (L. Buñuel): come detto in precedenza, chiunque o in qualunque momento qualcuno si avvicini a Chabrol ci deve interessare.

 

Born in Flames (L. Borden): in realtà un film che combatte contro l’ideologia (anche la propria).

 

La Passion de Jean D’Arc (C. Th. Dreyer): secondo regalo di compleanno (ne è nata una discussione):

Siamo una generazione che ha studiato meno di quanto avrebbe dovuto.

I nati negli anni settanta?

A un certo punto abbiamo avuto fretta e il risultato è che quando pensiamo al primo piano della Falconetti invece di pensare a Dreyer pensiamo ad Anna Karina che vede il primo piano della Falconetti al cinema in Vivre sa vie.

Può darsi.. Ricordo meglio il film se penso ad Artaud.. E ricordo molto di più Vampyr.. Ma Artaud che la avverte, non dire così che ti mandano a morte e poi è lui che le dice siamo venuti per prepararti.. Soprattutto lo lego alle sequenze più folli mai girate secondo me, ci ripenso come a un’allucinazione, non so neanche se le ho viste davvero, quando Jeanne è portata davanti alla folla e costretta a firmare, improvvisamente la cinepresa si mette a correre e si vedono dei saltimbanchi, un contorsionista, dei freaks, un circo intero che salta su come posseduto..

Non è la cinepresa a correre ma Rudolph Maté.

Se penso al cinema la maggior parte delle volte penso a uno stato di allucinazione, potresti ancora stare dormendo, è sottilissimo. Forse Jeanne dorme quando firma, subito pentendosi, quella dichiarazione di colpevolezza e allora vede saltare fuori nani e contorsionisti da una realtà parallela. Forse è per questo che ci ricordiamo più facilmente di Vampyr, è un film che si estende e tu ti stendi al tuo fianco e lo sogni e lui ti sogna. Però il punto è che quando penso al cinema la maggior parte delle volte penso a Dreyer.

Si, e anche perché continua, scusa intendo si propaga, prosegue.. Una volta volevo fare un lavoro sull’anima, sull’apparire e sullo sparire, sul fatto che l’essere è sempre così scivoloso.. e non trovavo quel film di Dreyer Due esseri e allora ho usato la scena di Vampyr con il morto non-morto messo in una bara e la sua soggettiva del cielo e degli alberi mentre viene portato al cimitero, l’ho sovrimpresso a certi saccheggi di Londra e a uno degli ultimi concerti di Amy Winehouse e a certi disegni scheletrici di Cocteau che vengono e tornano in un fondo nero e la voce di Debord che dice dormire o non dormire è la stessa cosa siamo sempre in una veglia..

Cocteau Le sang d’un poète?

Si.. Insomma, un gran casino se ci penso oggi, ma era perché cercavo di ricreare, anzi no, di capire come fa Dreyer a interrogarsi sull’essere disincarnandolo e al tempo stesso agganciandolo con forza a entrambe le posizioni del vivo e del morto..

Il massimo lo raggiunge in Raggiunsero il traghetto, è terrificante vedere due persone credere di andare verso la vita mentre vanno verso la morte.

Vanno in tutte e due le direzioni contemporaneamente.. Per Giovanna d’Arco è lo stesso, le immagini di quello che sa le sta per accadere la tormentano, la spaventano, tutti questi tagli ravvicinati sugli occhi sulla fronte sulla bocca sono il suo vero martirio.

La bambina-angelo di Ordet, quel sorriso. Dimmelo tu se quel sorriso è salvezza o perdizione.

Sto cercando di ricordarmi se Godard lo mette nelle Histoire(s) du cinéma..

Anche Gesù, secondo Scorsese, ha paura della visione, invece secondo Rossellini più ha cose importanti da dire più si concentra sul quotidiano, costruisce piccoli utensili, aggiusta reti da pesca. Pasolini è dalla parte di un’antropologia visionaria. Preferisco chi si illude poco.

Rossellini..

Si.

C’è una scena di Francesco, giullare di Dio che è l’unica ad avvicinarsi a Dreyer..

L’incontro col lebbroso.

Si, c’è un cielo che incombe, un silenzio assordante, le mani di Francesco che si copre il volto, l’abbraccio col lebbroso, il lebbroso che poi andando via si volta a guardarlo con la faccia deturpata, un morto che parla con i vivi, ma facendo questo ti fa chiedere chi è vivo e chi è morto, domande che sono troppo per chiunque, anche per Francesco, e allora Rossellini inquadra il cielo, le nuvole nella notte..

Noli me tangere. Rossellini e Dreyer mostrano e basta. Ma rimane un mistero come riescano a superare e a farci superare l’idea del corpo, l’idea di essere portatori di un corpo. Rimane un mistero come ci riescano con una cinepresa. Queste immagini si imprimono nella memoria eppure resta un mistero sapere cosa hanno visto esattamente. Sai cosa resta a me? Un senso di gratitudine e insieme di solitudine. Cioè, pur avendo dentro di me queste sequenze indimenticabili, non è detto che sia chiaro cosa abbia visto io.

A me invece dà fastidio un’altra cosa, che purtroppo mi ricordo anche di chi ha provato a manipolare Dreyer..

Lars Von Trier? È un problema minore e dipende da due fattori. Primo: anche nella vita passiamo più tempo a rimuginare sulle cose brutte che su quelle belle. Secondo: tu sei un grande moralista. Ma guarda la differenza: da un lato c’è un cielo che rimane silenzioso e perciò parla, ci interroga; dall’altro un cielo che vuole dare risposte, con tanto di campane.

 

Percey Jackson and the Olympians (C. Columbus) + Aquaman (J. Wan) + Army of the Dead (Z. Snyder): che orrore.

 

Fiori di equinozio (Y. Ozu): non c’è nulla che si avvicini di più, come fa questo film, a cogliere l’insondabile e inestricabile congiuntura tra malinconia e amore.

 

Dov’è la casa del mio amico? (A. Kiarostami): la sorpresa, rivedendolo, è per l’improvvisa coscienza di quanto manchi oggi un cineasta così. Questo film unisce fervore e intelligenza, desiderio di cogliere ciò che non si vede e rispetto assoluto per la realtà, per le persone. Desiderio, anche, di cambiare la situazione, di fare la rivoluzione.

 

Francisca (M. de Oliveira): l’anima è… e ci si cala nell’abisso, nel ripetersi della domanda e nel non poter dare risposta. Eppure è questa incompiutezza a definire l’immagine e ciò che anima (e ciò che si custodisce nell’anima). Se tutto conduce alla morte, con ironia assoluta si deve puntare all’eternità. Sarà allora forse possibile - dice Oliveira - dare anche una definizione di vita.

 

In Front of Your Face (H. Sangsoo): Meno ironico del solito, con una grazia assoluta racconta la tempesta in arrivo nella vita di una donna.

 

A Night of Knowing Nothing (P. Kapadia): l’interesse è soprattutto per l’archivio, meno per il modo ‘artistico’ con cui viene trattato.

 

Drive My Car (R. Hamaguchi): ..e allora, dovendo fare film, Hamaguchi si rivolge a uno scrittore (Murakami) riuscendo nella difficile opera di ritrovare il ritmo della parola, la luce e il modo in cui si diffonde.

 

Sycorax (L. Patiño, M. Pineiro): un piccolo esangue gioco a due.

 

A Chiara (J. Carpignano): sta tentando di fare un salto, per ora incerto. Sul suo terreno però (la festa dell’inizio) è di un talento assoluto, addirittura eccessivo.

 

Intregalde (R. Munteanu): inquietante, estremamente appassionante. Ancora una macchina nel fango.

 

Memoria (A. Weerasethakul): vedi articolo in questo numero.

 

Benedetta (P. Verhoeven): vedi articolo in questo numero.

 

Bergman Island (M. Hansen-Love): film sconclusionato quant’altri mai e con un’idea antiquata di Bergman. Eppure tutta questa imperfezione ha un’onestà e rimane nella memoria.

 

France (B. Dumont): forse è uno dei registi più intelligenti degli ultimi vent’anni. Massimamente rigoroso e spericolato. Puramente - e senza compromessi - politico. E divertentissimo.

 

Petrov’s Flu (K. Serebennikov): disordinato e sopra le righe alla russa, il che, nonostante tutto, lo rende piacevole.

 

The Velvet Underground (T. Haynes): nel complesso deludente.

 

Onoda (A. Harari): preferiamo il libro di Herzog (vedi articolo in questo numero).

 

Noche de Fuego (T. Huezo): piccolo film di sceneggiatura.

 

Commitment Hasan (S. Kaplanoglu): ha una classicità, un avanzare per volute sempre più ampie, che ne fa un oggetto prezioso di questi tempi. Confuso alla fine.

 

Hold Me Tight (M. Amalric): il racconto di una passione, l’elaborazione impossibile del lutto che agisce sulla struttura stessa del film decomponendolo. Regista (e attore) troppo sottovalutato.

 

Marx può aspettare (M. Bellocchio): Ancora i nuovi mostri. I vecchi nuovi mostri. Non è tuttavia un fatto fisico o di fisica dei personaggi, è una mostruosità più sottile in Bellocchio. Non sono le voci stridule né tutto ciò che stride in questa acidissima - spesso oscura per i protagonisti stessi - cronaca famigliare. Mostruoso è il rimosso. Mostruoso è lo sguardo che si vuole di una laicità fredda, estrema che rimuove il rimossso stesso. Però, in qualche strano modo, è proprio questo cinismo a diventare cinema. Muore suicida tuo fratello gemello, forse l’unico di tutta la famiglia che aveva una luce umana, e tu dimentichi pure la lettera d’aiuto che ti aveva spedito e l’altro tuo fratello (il grande intellettuale dei “Quaderni piacentini”, di recente scomparso) confisca, occulta il biglietto di addio. Tutti colpevoli, tutti ingiudicabili. Proprio, forse, come i film.

 

Evolution (K. Mundruczo): meglio del solito, ma sempre di mano pesante, senza libertà.

 

Vortex (G. Noè): vedi articolo in questo numero.

 

Babi Yar Context (S. Loznitsa): il modo con cui le immagini incredibili, terrificanti qui mostrate vengono sonorizzate come se volessero dichiararsi prese dal vivo è molto discutibile. Ma, ripetiamo, si tratta di una materiale incredibile, insostenibile.

 

Re granchio (A. Rigo de Righi, M. Zoppis): forse un po’ derivativo (specie nella seconda parte), ma davvero atipico e di cui tenere conto.

 

Window Water Baby Moving (S. Brakhage): visto insieme alla coppia che aspetta un bambino (anzi, una bambina), ci stiamo preparando tutti assieme. Film assolutamente folle. Bellissimo.

 

Non c’è pace tra gli ulivi (G. De Santis): un nostro amico tempo fa lo ha inserito a sorpresa fra i suoi migliori dieci film italiani di sempre. Rivedendolo, crediamo abbia ragione.

 

Zeros and Ones (A. Ferrara): l’unico che ha capito (insieme a Rossellini Fellini e Argento) cosa si può fare quando è notte a Roma. Cinema paranoide.

 

Medea (A. Zeldovich): le scene girate in Israele, quasi un film nel film, cambiano il ritmo di come lo si guarda. Il finale, con l’urlo di Medea.

 

I giganti (B. Angius): scrivere un libro sulle persone fuori da tutto che letteralmente fanno cinema solo per se stessi.

 

Pathos Ethos Logos (J. Pinto, N. L. Coelho): scrivere un libro sulle persone che letteralmente fanno cinema solo per se stessi (non importa se e quanto sia riuscito ciò che fanno).

 

The Card Counter (P.Schrader): Scivola, si ribella, si dispera. Le incredibili scene di Abu Ghraib, il tempo-film che si prendono per colpire al cuore. Film a metà fra Hardcore, Light Sleeper e First Reformed. Il senso della durata: on the road in cerca di numeri, lo sguardo segue le carte, il tempo alternativo del gioco come nel capolavoro di Altman, California Split. La memoria delle carte cerca di sostituirsi alla memoria delle torture. La perversione generale, la regressione dell’umano all’interno di un mondo attutito, sonnolento. La purezza e ciò che ha sporcato per sempre la purezza si muovono nella stessa inquadratura (da qui la citazione finale da Bresson).

 

Il buco (M. Frammartino): vedi conversazione in questo numero.

 

El gran movimiento (K. Russo): anche se completamente su un altro piano, non lontano da Schrader. Qui è la città - La Paz come una sinfonia cupa di lamiere e esseri umani - a fare da sfondo liquido e arcano alla perdita di senso della lotta, al modo in cui la resistenza dei popoli viene assorbita lentamente nell’oblio di cui vengono accusati i popoli stessi (come dice Godard in Le Livre d’image). Poi qui c’è anche un viaggio alcolico, sbilenco e allucinatorio che, in realtà, è un confronto con l’anima, con la difficoltà di dare una spiegazione all’esistenza stessa.

 

Qui rido io (M. Martone): studiare meglio il lato inconscio, anzi proprio l’origine istintiva dei film di Martone. Sia chiaro, questo, ammesso che sia un film folcloristico, lo è solo in senso gramsciano.

 

Freaks Out (G. Mainetti): bisogna dire la verità, film mai fatto prima che riflette sulla vena complessivamente eclettica e avventuriera del cinema italiano e di certa cinefilia solo italiana (che è molto più rigorosa e libera insieme di quella ideologica e supponente francese dagli anni ottanta in poi). Rossellini + The Avengers + Tarantino + commedia italiana ecc ecc. Visionario e mostruosamente ambizioso.

 

Plastic Semiotic (R. Jude): piccolo acido omaggio a Walter Benjamin e ai suoi studi sull’infanzia.

 

La dernière seance (G. Matarrese): film duro e amoroso come non se ne vedeva da tempo sulla generazione spazzata via dall’HIV.

 

La siréne du Mississippi (F. Truffaut): che piacere rivederlo. Di quella freddezza affilatissima tipica di Truffaut, qui sembra di vedere il lato più cupamente romantico, dove l’inganno tra le persone diventa il segno dell’inganno che potrebbe essere la vita stessa. Ma Truffaut, il cui grande mistero deve ancora essere completamente compreso, è troppo intelligente per dare risposte, e preferisce, nel dubbio, aggrapparsi alla vita, anche se questa ultima fuga molto spesso significa preparsi a morire.

 

La Noire de… (O Sembéne): difficile trovare un esempio migliore di un regista che inventa un’immagine completamente nuova e, facendo così, riesce a interrogarsi sulla propria identità politca e umana.

 

Jericho Mile + L. A. Takedown + The Thief: (M. Mann): rivisti per una cosa che dovevamo e che non siamo riusciti a scrivere. Colpevole soprattutto Mann, che quanto più si muove su percorsi già intrapresi da altri, tanto più diffonde immagini ma viste e tutte le volte ti costringe a chiederti ma come ha fatto? Togliendoti, appunto, le parole.

 

Old (M. Night Shyamalan): con gli anni è diventato più trasparente e fluido e, forse, fa più paura adesso (anche quando forse meno riuscito).

 

Rien ne va plus (Claude Chabrol): in qualche modo strano sentiamo in questo film bellissimo e sottovalutato (tutti i film di Chabrol sono in qualche modo sottovalutati) l’eco di La siréne du Mississippi. Tutte le scene sulla neve sono formidabili e il gioco di inganni a un certo punto toglie il respiro e crea un’immagine abbagliante.

 

Madres parallelas (P. Almodova): negli anni abbiamo capito che questo cineasta di grande successo, è in realtà il più misterioso e obliquo degli ultimi quarant’anni. Andrebbe rivisto tutto daccapo.

 

Titane (J. Ducournau): non ci chiedete perché, ma a noi questo film sembra di una bruttezza e una nullità inenarrabili.

 

Annette (L. Carax): ecco un film che ha nel suo essere scomposto debordante e generosissimo uno dei segreti del cinema.

 

Licorice Pizza (P. T. Anderson): il freak in questione è senza dubbio il regista. Anche in un film arioso e che più piccolo non si può, Paul Thomas Anderson costruisce castelli di ambizione sconsiderata. Anche l’idea bella di voler essere appena una folata di vento si trasforma in un vero e proprio marchingegno. Le età impossibili e non chiarissime (mentre sono chiare le provenienze religiose) dei due protagonisti, il figlio dell’attore famoso e la terza - sensualmente più sgraziata, e perciò l’unica davvero sexy - di tre sorelle musiciste. Ecco il feticismo all’ennesima potenza che si finge mossa laterale del regista freak. Poi c’è la curiosa assurdità del business messo in piedi dalla strana coppia (e lei che a un certo punto sbotta: per due tette che vuoi vedere: eccotele!), certe scene parodistiche al cubo (il camion all’indietro di notte a LA… - il secondo bus dell’anno che fa il passo del gambero dopo quello di Memoria di Apitchapong). Tutto frana molleggia e si insegue all’insegna di una bella insensatezza. E si inseguono, male, anche le songs mitologiche, i sogni d’attrice e ingenui risvegli politici. Mentre Sean Penn Tom Waits e Bradley Cooper sono peggio che bambini (per fortuna). Il premio, cinicamente, sarebbe quella ragazza più grande, e alla fine si chiude così, con una certa dolcezza.

 

Odyssey 2021

 

 

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