"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
Le storie, inserite le une nelle altre, vengono raccontate per tre corone. Un assassino misterioso ha solo nove dita. Ruiz e Ossang sono compagni segreti, passeggeri segreti. Come in un racconto di Conrad (e Kurtz si chiama in Ossang il tramatore, il mappatore verso un “cuore di tenebra” che è il film stesso) dove il giovane capitano e narratore, inserito, come un adepto-neofita, nell’equipaggio ambiguo e decrepito, avvista un uomo in mare che gli appare come un cadavere (e Magloire, nomen-omen di un “corpo glorioso” destinato a ripartirsi e trasfigurarsi, all’inizio del film di Ossang è proprio un cadavere che ritrova e rivolta sulla spiaggia, con i vestiti inzuppati e un pacco di denaro, in un paesaggio notturno e piovoso, un pelago dove il mare e la terra sono limitrofi). In Conrad quello che sembra un corpo galleggiante si muove silenzioso come chiedendo soccorso al giovane capitano, si confessa colpevole di omicidio, dunque assassino, avrà nove dita?, e sinistramente quell’uomo somiglia a se stesso, al capitano narratore. 3 couronnes e 9 doigts. Le matelot, il capitano (Diogo Doria, corpo di Manoel de Oliveira, e poi in Manoel di Ruiz conduttore e apparizione all’isola delle meraviglie, capitano di lungo corso e ancora apparizione in Le trois couronnes), un equipaggio di fantasmi, essere condotti su un vascello spettrale verso i ghiacci che fanno pensare al ruiziano Brise-Glaces, e alla grande cosa bianca dei poli nel Poe di Gordon Pym. Film clandestino costellato da doppi (Drella e il suo doppio, statuto trasmutabile del corpo erotico, come la danzatrice del viaggio in mare di Ruiz) che si inabissa e riemerge, quello di Ossang (compagno segreto di tutta una serie di film clandestini), che comincia in un sottosuolo e in una amniotica e sottomarina proiezione simile a un acquario attraversato da pesci inaudibili (il “pesce alchemico” su cui Ruiz poneva un punto interrogativo in uno dei suoi “sempre postumi”, estremo film Ballet Acquatique, 2012), che è una catabasi in cui il mare e l’inferno si incontrano e in cui quel “dito” scomparso (dalle dieci dita delle due mani, che dirigono e indicano l’invisibile) invia a una deriva dove le direzioni si intersecano come sulle mappe, sui territori che il film-nave proietta nel suo stesso ventre. È a una teoria di doppi che si destina il “corpo glorioso” di Magloire, come fosse assoldato (a prezzo del suo stesso esistere) per incarnare una allucinazione, e la nave stessa fosse il veicolo che si muove sulle “acque di proiezione”, nei territori di fuoco e di ghiaccio del cinema. Territorio, come si vede all’inizio e come si ripercuote nello straordinario e abbacinante bianconero del film, costellato di ombre, wellesiane anzitutto (quelle casse, le stive, il carico misterioso del Cargo rimandano ad Arkadin). Certo Franju (con quel cane che corre dietro l’auto e con i “negativi” pellicolari e minacciosi degli incroci destinali) e certo Murnau (la sembianza espressionista di Gerda potrebbe provenire da Der brennende Acker del 1922 dove lei, che si chiama appunto Gerda, è una sorta di figlia “del diavolo” che presiede a un “campo del demonio”, a una “terra che brucia”, e quel libro di vampiri sfogliato sottocoperta così come l’allusione alla peste portata da una nave, alludono a Nosferatu). Certo sono radiazioni, è la possibilità di far deflagrare il mondo e le sue immagini (“noi siamo i detonatori” si dice nel film) ciò che Ossang trasporta nel film. Così come è un risalire la corrente del tempo ciò in cui a poco a poco siamo, come da una corrente elettrica, trasportati mentre vediamo il film. Procedimento di risalita lungo le scoscese distese temporali che adottava Ruiz (e la presenza di Pascal Greggory che proviene dal Temps retrouvée di Ruiz lo conferma) e che qui sembra portato a un circolarità ossessiva e insieme espansiva (come se i cerchi, gli “oblò”, le iridi che ricorrono nel film fossero onde magnetiche che si allargano sulle increspature delle acque oceaniche, come nei riflessi oscuri del gorgo di un lavandino). Dunque salire sul cargo per il corpo sensibile di Magloire significa essere immesso su una sorta di banda magnetica (nel film c’è un sottile lavoro sul suono che sembra riverberare l’alterazione auditiva di uno stato amniotico), e la misteriosa gang che trasporta il plutonio ci appare come una troupe in viaggio verso l’ignoto, in una deriva oppiacea, sul dorso di una île flottant (un film analogo di Ossang del 1990 era Le trésor des îles chiennes). E man mano che il film si inoltra nei suoi detours misteriosi, si mormora sorridendo, con il compagno segreto, e con tutti i “clandestini” del cinema, i suoi occulti passeggeri, una sua, nostra, battuta significativa: “Non c’è niente da capire, ecco la chiave!”.
Alireza Khatami è regista di origine iraniana e ha girato in Cile il suo primo lungometraggio, Los versos del olvido (presentato durante l’ultima Mostra veneziana e vincitore del Fipresci come miglior esordio e del premio per la sceneggiatura nella sezione Orizzonti): basterebbero la sua erranza apolide e il richiamo all’oblio nel titolo per poterlo affiancare a Ruiz, cileno, esule e cantore della memoria e della dimenticanza. Se aggiungiamo poi che l’ambientazione del film di Khatami non è geograficamente localizzabile e che il fantastico e il passato convivono con il realistico e il presente fino a confondersi, allora la corrispondenza con Ruiz è fatta, e tutto quel che si potrà dire in più sarà superfluo.
Però è proprio quel superfluo, quella parte eccedente a interessarci. Los versos è ambientato per lo più in un cimitero e inizia con il racconto numero 997 di una serie di aneddoti dedicati alla morte: dove sono andati a finire gli altri 996, e da dove vengono? Probabilmente sono tornati, e si sono persi, nella stessa regione labirintica della Recta Provincia ruiziana, dove ogni racconto ne contiene un altro e questi un altro ancora, come infinite matriosche. Racconto dopo racconto, confluiscono nella Provincia immagini che riconosciamo come originarie da altri luoghi cinematografici: nel film madre e figlio inscenano un road-movie, e a vederli da lontano si potrebbero scambiare per Totò e Ninetto di Uccellacci e uccellini, o a due pellegrini de La Via Lattea; e il labirinto delle storie si complica ulteriormente nei meandri delle autocitazioni dei film di Ruiz, se si pensa che forse la madre è la stessa di Días de Campo (altro film autocitazionista: pensiamo ai fiammiferi giganti già presenti nella quarta parte di Cofralandes, altro paese immaginario così simile al Cile – ma ci fermiamo: la serie delle matriosche, come detto, è potenzialmente infinita, meglio tornare a madre e figlio), con il figlio che le manda lettere da Antofagasta, la stessa città di La noche de enfrente...
Come fare allora una genealogia ruiziana delle immagini nel film di Khatami se già quelle di Ruiz si fa fatica a inquadrarle e definirle? Prendiamo ad esempio l’immagine ricorrente della balena de Los versos: la sentiamo evocata alla radio, la scorgiamo come graffito, la vediamo addirittura volare. Forse proviene dalle favole di Pinocchio-Pinochet, mentitore e burattino degli americani, come veniva soprannominato dai suoi oppositori. Oppure la balena potrebbe essere il grosso pesce, simbolo di rinascita, che aveva ingoiato il biblico Giona: per analogia, potremmo accostarvi la scena del custode del cimitero che per sfuggire alla morte si lascia inghiottire dai budelli labirintici di un immenso archivio per poi emergere, quasi miracolosamente, da sotto un masso posato al suolo. Già un’altra volta era sopravvissuto ai suoi sicari, mandati dal regime dittatoriale per cancellare le tracce della propria cruenta repressione, e si era ritrovato a vagare in un deserto surrealista, con rocce a forma di dita che affioravano dalle dune.
Ecco, forse la persistenza della memoria rivela un ostinato attaccamento alla vita, il desiderio di non voler lasciar andare definitivamente quel che è dato per morto (e per questo la retorica comune, che invece è mortalmente vitalista e nuovista, stigmatizza l’approfondimento nel passato come perversione necrofila). Ruiz e Khatami danno due definizioni dell’oblio una contigua all’altra. Nella Recta Provincia si dice che l’oblio è un ricordo amputato. Ne Los versos, che l’oblio è dimenticare di dimenticare. Come dire che l’amputazione operata sulla nostra memoria è data dalla nostra incapacità di accorgerci di aver dimenticato qualcosa.
Oppure ci si può illudere di non morire mai del tutto: un corpo morto continua a progredire nel suo decadimento, a raccontare qualcosa di sé, e nel racconto in qualche modo vive, ed è ancor più vivo se quel che racconta non è verità bensì leggenda, o il lieto fine di una triste storia. Attraverso il racconto, che è innanzitutto rito evocativo e magico, prendono forma le immagini, che iniziano a danzare come fantasmi. Nessuna immagine è davvero originale: dall’archivio della nostra memoria ne attingiamo altre, affini a quelle evocate, che utilizziamo come modelli per formare le immagini del racconto: e così, di proiezione in proiezione, proteiformi le une alle altre, creiamo immagini e da queste altri racconti.
Abbiamo esagerato con le digressioni? Certo, ma ci sentivamo legittimati a farlo: nel suo Stato immaginario, come capo dell’opposizione al regime al potere Khatami ha nominato Tarkovsky, che compare in alcuni volantini elettorali (con lo slogan «El pasado pasará»), e Bergman come ex presidente deposto.