"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

SPECIALE Minding the Gap

Su una certa lacuna di alcuni film

Lorenzo Esposito

Il titolo stesso di questo speciale non arriva alla precisione con cui un film come Tully misura esemplarmente il livello di fragilità (che ritorna metaforicamente nell’idea di eterno non-passaggio all’età adulta - Young Adult recita spudorato un Reitman 2011) di un piccolo selvaggio mucchio di film un po’ troppo e non a caso segretamente amati nel corso dell’anno appena trascorso. Minding the gap appunto, prendersi cura delle loro mancanze e forse del loro volersi mancare, è un modo per restituire quel che tuttavia, di questi amici fragili, attiene al puro desiderio. Filmicamente, questo è il punto, è proprio questo non-passare a doversi intendere piuttosto come passaggio verso un differente confine, un po’ più labile, invisibile, un po’ meno facilmente declinabile, che ne segnala, volutamente sottotraccia, l’interesse e la bellezza possibili. Tully svolge quasi serenamente tale riflessione su una certa lacuna di alcuni film (e non più mai su una certa tendenza), su un certo modo di sparire e poi di riaffiorare come ipotesi di inattualità che costituisca il nucleo stesso del filmare (tutto Reitman, d’altra parte, si muove felpato su questo crinale). La questione dunque non è se Tully sia un film bello oppure no. Intanto lo è, così come e in quanto meravigliosamente desueto, seccamente anti-catartico, film illusionista che non offre illusioni, ma analizza invece una materia convulsa e politica che riguarda la donna e il suo corpo senza mai scadere nei patetismi sociologici e ideologici che appiattiscono e esacerbano e tradiscono. Si tratta di interrogarsi cosa lo distingua, all’interno di quella che una volta, e che invero non si è mai interrotta, si poteva definire produzione media americana (non è più il caso di usare la parola hollywoodiana). Cosa ne faccia un film unico e che si muove su livelli di intensità che, per esempio, nessun annacquatissimo medio film Netflix sembra in grado di raggiungere (nessuna polemica, solo constatazione, visto che d’altronde il gigante tentacolare on-line forse proprio non vi è interessato, ormai i casi di film appena accettabili o guardabili con la distrazione meccanica con cui la mattina ci laviamo i denti pensando ad altro non si contano più). Uno dei motivi è sicuramente Charlize Theron, o meglio la complicità con cui la leggerezza di Reitman e la caparbietà dell’attrice, lavorano il corpo trasformandone la mutazione da processo narrativo a vero e proprio tessuto filmico. Il fatto che questo ‘passaggio’ avvenga quasi silenziosamente, giocando all’apparente linearità di intenti e intreccio, è ciò che distingue Tully dalla gran massa di film che si beano a ricalcare orme altrui, soddisfatti di essere riconoscibili e niente più (sia chiaro, inferiori anche alla scrittura che pretende di essere regia di talune entusiasmanti serie). No, qui la cosa che si vede è il lavoro dell’attrice, il quale tuttavia è il vero e forse geniale mcguffin in grado di mascherare il lavorìo del film, di farlo scorrere su un piano più segreto che invita a guardare oltre i fatti, a scrutare fra le maglie, in modo che molte cose non tornino e che anche la sorpresa finale risulti depotenziata al punto da produrre il desiderio immediato di rivisione alla luce dell’elemento tanto apparentemente invisibile. Ecco, Reitman, a differenza di altri, non è mai stato uno shooter, ma un regista che fa della mutazione e della crisi d’identità una possibilità di investigazione dell’invisibile che ci riguarda e che dunque riflette sulla necessità di imparare a convivere con questa malinconia. Ci si illude di vedere o di vedere tutto, fino alla fine delle illusioni.

 

 

La vita al Double Whammies

Giorgia Cacciolatti

Texas, giorni nostri. Siamo al Double Whammies, breast-resturant “per famiglie” (come viene ribadito più volte) gestito da cameriere con corpi da urlo stretti in top striminziti e shorts inguinali. Sulle ragazze veglia l’occhio attento ma affettuosamente materno della responsabile Lisa, che seguiamo durante quella che si rivelerà essere la sua ultima giornata di lavoro. Ciò che più stupisce dell’ultimo film di Andrew Bujalski è la capacità di distruggere ogni previsione dello spettatore, ingannato a partire dal titolo: se da Support the Girls ci si può aspettare una gender-comedy dai toni squisitamente femministi, quel che emerge è invece un racconto scevro da ogni tipo di ideologia, in grado di superare i rischi e limiti posti dal pericoloso background entro cui si muove, dove strumentalizzazione del corpo femminile (the four B’s: be responsable, be informed, be friendly, be sexy), paradossali politiche razziali (the Rainbow Guideline) e rozzo predominio maschile si intrecciano continuamente senza tuttavia intrappolare la narrazione, che scorre libera tra i rapporti emozionali venutisi a creare tra i personaggi, legati da solidarietà prima di tutto umana e solo dopo femminile (e niente affatto preclusa ai maschi), nata da una parità di condizioni che via via si è tramutata in vero e proprio affetto, l’ossigeno che permette la sopravvivenza psicologica al dramma quotidiano imposto dall’appartenenza alla lower-class americana. Ciò che più stupisce del film è la capacità di far emergere quest’empatia senza tuttavia raccontare, se non collateralmente, le storie che la animano e che rimangono sullo sfondo per lasciare il posto a quelle che sembrano più persone che personaggi, verso cui si sviluppa un forte senso di familiarità e complicità che va al di là dei singoli trascorsi di cui viene detto poco o niente, anche quando si tratta della stessa protagonista, della cui vita privata si coglie a malapena qualche amaro frammento.
Quella che appare come una normale giornata di lavoro sempre uguale a se stessa viene a un certo punto stravolta non da un evento specifico, ma dalla dolorosa presa di coscienza di Lisa durante un improvvisato e surreale viaggio in macchina - rivelatorio per lei ma oscuro e angosciante per lo spettatore - in cui perderà, più o meno volontariamente, il lavoro.
Da questo momento le emozioni dei soggetti del Double Whammies saranno segnate da un malinconico senso di fine che intensificherà il forte legame tra la donna e le ragazze, già consapevoli dell’impossibilità di sostenere lo squallore quotidiano senza quell’empatia e affetto reciproco a cui sempre si aggrappavano per rimanere a galla.
Il film è a tratti attraversato da una comicità che scaturisce più da un senso di straniamento che da un umorismo vero e proprio, e che culmina nel delirante e fallimentare tentativo di ribellione al licenziamento di Lisa da parte delle sue protette, la cui febbricitante performance ha il sapore dell’improvvisazione. Questa libertà recitativa, probabilmente specchio di una altrettanto libera scrittura, è più o meno marcatamente onnipresente. Qui risiede la potenza del film di Bujalski, nella capacità di assumere, con estrema naturalezza, tratti quasi documentaristici nella toccante e malinconica narrazione dei legami solidali e affettivi tra i personaggi, narrazione che si apre con il pianto solitario di Lisa e si chiude con un urlo collettivo di isterica ma catartica liberazione, seppur solo apparente anche ai loro stessi occhi.

 

 

Noia mortale

Edipo Massi

Poiché l’esistenza di questa rivista non si basa sull’evenienza che un film occupi una qualche posizione alta o bassa nel gran firmamento dei film, c’è qualcosa di così apertamente innaturale nella concezione (e nell’ambizione) di un film come Mandy di Panos Cosmatos (datato ormai più di un anno fa), che vale la pena spendersi brevemente. Le gare di rinvenimento di citazioni e successivi sarcasmi di chi se ne è occupato finora sono inutili soprattutto perché mancano ciò che davvero sembra continuamente in questo film cedere sotto la sua stessa fragilità (la quale a sua volta è anche l’unica cosa realmente affascinante). La lenta colata estetizzante nel mezzo di foreste che sembrano svaporare in un diluvio di rugiada (colonna sonora il cult prog ex-king crimson), l’ironica architettonica vita di coppia en plein air in una baita avveniristica, le voci che sfumano nella notte già presagendo l’oltretomba sanguinario che verrà, Nicolas Cage fuori luogo fuori posto, Andrea Riseborough dark e irriconoscibile: tutto - in questa che è senz’altro la parte migliore del film - è appunto quanto di più caustico e, volontariamente o meno, teso a un’irriverente danza attorno alla noia (quelli bravi qui parlano di psichedelia e di film sotto effetto LSD), che sia dato di recente vedere. L’armamentario post-mansoniano che segue è in fondo un elemento di pura normalizzazione, anche se l’approccio visivo è altrettanto umidamente corrusco, e nella notte di questa coppia di amanti (difficile dire se felici, diciamo fatali e fatalisti) l’ultra-violenza non viene giustamente risparmiata (e neppure la classica struttura che vedrà Cage vendicarsi con gli assassini di Mandy - gliela bruciano viva davanti - uno a uno, fino a che il sangue scuro che gli copre il volto non si unirà in un ultimo slancio pittorico allo schermo stesso). Per chi ha visto il precedente Beyond the Black Rainbow noterà come anche la concettualità ossessiva (e altrettanto ironicamente noiosa e oscura) sia andata smarrita, e così quell’idea di asciugare all’osso gli elementi narrativi immagazzinandoli tutti nella dimensione visiva (anche questa fortemente citazionista), che invece in Mandy risorgono drammaticamente oppure, a seconda dei punti di vista, stanno lì come puro sberleffo. Eppure la vena trascendentale rimane intatta, maniacale e onirica, facendo in fondo di questo film una vera e propria teoria del vintage, che a sua volta, per certi meravigliosi fissati di cinema, non è altro che esibizione malinconica della dannazione autobiografica (faccio un film come vorrei che fossero, oppure come ho sognato che fossero quando ero ragazzo e mi ammazzavo di film). E questo è un po’ meno noioso. Magari tenero, ingenuo, ma per nulla noioso. Si tratta di riottenere quello stato di alterazione delle visioni estreme e infinite durante la giovinezza, raggiungerlo superando i pericoli dell’inconscio e le minacce di controllo sociale (Beyond…) o religioso (Mandy), e restare, una volta per tutte, solo e protetto dalla propria ingenuità. Indipendentemente dalla riuscita o meno del film.

 

 

Magica combinazione

Simone Emiliani

Un road-movie con un’estetica vintage. Peter Farrelly (senza il fratello Bobby) verso gli anni ’80. In un decennio non attraversato dal suo/loro cinema. Apparentemente più controllato. In una strana, quasi sospettosa classicità nelle forme tradizionali della narrazione. Tratto da una storia vera, mostra il viaggio di un autista ex-buttafuori Tony Vallelonga e un pianista di talento Don Shirley che deve attraversare il paese per un suo tour. Tutto sospeso tra l’eccesso e la sottrazione già dal contrasto tra Viggo Mortensen, in un’altra mutazione cronenberghiana e Mahershala Ali, quasi una specie di spettro dopo Moonlight. In un cinema che si prende pause più lunghe rispetto al cinema di/dei Farrelly. Gli anni ’60 come potevano essere mostrati nel cinema statunitense di trent’anni fa. Quasi uno strano ibrido tra Norman Jewison, John Landis e John Hughes. Il contrasto bianco/nero di Una poltrona per due in sovrimpressione con Una pazza giornata di vacanza. Con le immagini della famiglia di Vallelonga, quasi riciclaggio di Stregata dalla luna. Ma Green Book è soprattutto un cinema di largo respiro. Capace di entrare nel ventre degli Stati Uniti. L’automobile come specchio del paese. Quasi altro sguardo, sovrapposto ma anche parallelo, in un cinema dove lo sguardo dei due protagonisti diventa già memoria. Le tracce della Storia prima dell’omicidio di John Kennedy. Ma anche squarci intimi sul proprio privato che si apre a un finale di prevedibile e grande intensità. Che rispetta quelle attese banali e grandiose della migliore recente commedia statunitense. Ma dove in questo attraversamento nelle forme del buddy movie, c’è un impeto politico che può apparire trattenuto e in realtà è impetuoso. Non c’è la rabbia contagiosa di Spike Lee di BlacKkKlansman. Al cinema di Farrelly non interessa costruirla con una musica incalzante che crea una sorta di sdoppiamento sensoriale tra quello che si sta vedendo e l’illusione impetuosa di deformare quell’immagine, di far saltare tutte le prospettive e mescolare i colori nel momento stesso in cui si sta guardando. Ed è determinante, per esempio, la scena nel ristorante di Birmingham, in Alabama, dove a Don viene impedito di cenare prima del concerto che deve tenere perché la sala è riservata solo ai bianchi. A quel punto Tony decide di far saltare l’esibizione che si terrà invece in un locale di afroamericani. Ancora Spike Lee. Dalle parti di Mo’ Better Blues. Senza scendere in una zona documentaristica. Quella scena diventa esplosiva proprio perché unisce elementi apparentemente semplici ma in magica combinazione: scrittura precisa, mai oppressiva (tra gli sceneggiatori c’è anche Nick Vallelonga, figlio di Tony assieme allo stesso Farrelly e Brian Hayes Currie), esibizione da film-concerto e soprattutto il piacere della narrazione. Esattamente quello che ha sempre attraversato il cinema dei Farrelly. Anche malgrado i suoi detrattori. Dove il demenziale diventava elemento futurista. Quasi di rottura. L’autista di Viggo Mortensen che copre ogni zona di vuoto con la parola è la reincarnazione di quello della limousine di Jim Carrey che la colmava con un’elastica fisicità in Scemo & più scemo, anche quello diretto solo da Peter. E quello dei Farrelly è sempre un cinema di viaggi nel cuore del cinema americano. Dal poliziotto dalla doppia identità con la ragazza arrestata nello strepitoso Io, me & Irene alla luna di miele burrascosa di Lo spaccacuori. Green Book è anche un cinema sulla ricerca della propria identità. Quella del pianista, che non appartiene alla comunità dei bianchi ma neanche a quella afro-americana che aveva ripudiato. Forse l’anima black di Jim Carrey. Quasi il suo opposto. Ma con gli stessi cromosomi di un corpo in grado di scindersi e moltiplicarsi.

 

 

Arturo Lima

Pittori di anime

A dire il vero If Beale Street Could Talk di Barry Jenkins è un film considerevole. Uno di quei casi rari in cui l’adattamento si scopre essere in realtà quasi un naturale scivolamento, qualcosa di già forse contenuto nelle pagine del romanzo di provenienza o scritto come se fosse ancora tutto da filmare (come è tipico dell’autore, James Baldwin). Jenkins traduce questa qualità in desiderio immersivo, si muove morbido e sensuale, fisico e in primo piano. Davvero era da tempo che non si vedeva un film che anche quando si chiude in una stanza o in una casa senza temere lunghe sequenze di dialogo, lo fa conducendo sempre gli attori verso un terremoto di sentimenti, e tutto sembra bruciare, i corpi i volti le reazioni sono letteralmente infuocati (certe sequenze sono addirittura indimenticabili, come l’incontro esplosivo e tesissimo fra le famiglie dei due amanti, puro incandescente mélo a metà fra Sirk e un Cassavetes black). E ancora più raramente è dato vedere una tale perizia di messa in scena, dove il décor e la grana concorrono insieme a ricreare, senza artificio, l’Harlem degli anni ’70 (l’estate di Harlem, con quell’accensione unica che sembra al tempo stesso aurora e crepuscolo), dove neppure si può dire che siamo invitati a entrare, siamo già morbidamente parte di una memoria che si svolge liquida e fluidissima, e dove la pur evidente causalità del difficile contesto sociale non scade mai nel sociologico, passando anzi in secondo piano rispetto allo scatenamento puro di un amore in trappola. Non sentimentale, romantico. Non didascalico, didattico. Forse allora non c’è da stupirsi che Jenkins pubblichi di recente sul “New York Times” una conversazione con Claire Denis su High Life, dove oltre alla convergenza all blacks (per Denis all’inizio della carriera quando si trattava di chiudere i conti con la sua giovinezza ‘africana’ e suo malgrado colonialista), i due riflettono insieme sui caratteri di umanità e tenerezza e sul modo di orchestrare il tempo. Denis spiega la sua procedura per diagrammi, volute sempre più ampie e insieme aggiranti, che del tempo cercano di implicare e proprio di filmare ciò che viene costantemente perduto o sviato. Senza che Jenkins faccia riferimento al suo film (lo fa Denis però, complimentandosi), si capisce l’ispirazione che trova nel metodo di Denis, ma che tuttavia lo elabora partendo dalla concentrazione assoluta sui volti, i quali recano i segni e, appunto, le ferite, i vuoti di memoria, del tempo che stringe d’assedio e culla con lo stesso movimento. Si tratta di cineasti che non temono la vulnerabilità, anzi conoscono la fragilità delle storie e delle immagini, degli uomini e delle donne, e ne traggono linfa visiva. Sono piuttosto dei pittori, pittori di anime che ci mettono l’anima. Nella gentilezza delle giustapposizioni temporali di Jenkins c’è la capacità di mostrare come presagio la tristezza verso cui volge la storia d’amore fra Tish e Fonny. Senza alcun patetismo, lo spettatore si ritrova nella posizione di accompagnare questa inesorabile linea malinconica, conscio che è da qui che si genera per i personaggi la forza necessaria a resistere. E allora, grazie a quest’ultima pennellata, non è solo un rapporto individuale, ma un intero mondo, un’intera epoca che si sprigiona.

 

 

Uno skateboard di malinconia

Vanna Carlucci

La macchina da presa scivola lungo le strade di Rockford, cittadina dell’Illinois. Ogni immagine sembra poggiarsi sul niente, sorretta dall’aria che taglia o forse attraversa i corpi di tre ragazzi che nutrono la stessa passione per lo skateboarding: Keire Johnson, Zack Mulligan e lo stesso cineasta Bing Liu. Minding the gap si apre così, con uno sguardo falciato dalla luce che scivola enorme sopra certe strade deserte dove Bing Liu riprende i suoi due compagni con la carezza di chi conosce chi ha di fronte a sé costruendo un documentario che apre ricordi, infanzie, prospettive e lo fa scavando nella malinconia degli sguardi persi nell’aria tiepida della sera, cercando barlumi sui loro profili notturni, tra le crepe delle loro stanze caotiche lì dove la violenza ha creato solchi, provando ad afferrare nel movimento fluido dei ragazzi sullo skateboard uno spiraglio ancora possibile.

Il paesaggio pare apocalittico nella sua completa assenza di vita o forse, di vitalità, colpita com’è dalla recessione economica e che ha fatto dell’Illinois uno dei paesi con il più alto tasso di criminalità. Dentro questo scenario ogni ripresa diventa una voce isolata, rannicchiata in questa coltre di desolazione che sembra investire Zack che ancora piange sulla tomba di suo padre nonostante le percosse subite, Keire che incarna lo stesso atteggiamento violento di suo padre.

In questa carrellata di volti che si ripetono nella loro tragica quotidianità Bing Liu affila i loro sguardi per potercisi riflettere, specchio della propria vita, anch’essa disagiata e che trova voce attraverso le parole di sua madre. Minding the gap riporta in vita una memoria lucida, quella della violenza domestica che crea fratture, rompe legami importanti (quelli tra padri e figli) e crea fardelli impossibili da sopportare; una memoria che è narrazione, un racconto fatto di tasselli temporali, immagini in vhs di vecchi filmati di famiglia per alimentarsi poi di nuove riprese, interviste e voli pindarici sulle quattro ruote di uno skateboard rispolverando così il passato (suo - di Bing Liu - e dei suoi due compagni) per sbatterci la faccia e ritracciare un nuovo cammino. Sembra una eterna rincorsa, quella di Liu che cerca di acchiappare tutto ciò che resta della leggerezza dei suoi protagonisti, una leggerezza che in realtà non esiste se non quando sfrecciano, saltano, volano con i loro skate (l’unico dispositivo che cura dall’angoscia) allontanando il passato, schivando il presente sfondato dal peso di una vita che ha abusato di loro e di cui portano addosso ancora le ferite.

 

 

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