"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
È probabile che l’unico futuro di cui valga la pena parlare è l’essere postumi. Se non altro perché in qualche caso – come il Caso Orson Welles – l’essere ammette senza più dubbi l’essenzialità del non essere. Essenziale per poter essere sempre in troppi e di troppo a se stessi, per sapersi indefinitamente rilanciato e rilanciabile. Il fatto è che Too Much Johnson non prende neppure in considerazione la possibilità di essere unfinished, neppure come sostituto cubista di quinta teatrale. Al di là della trama o dei finali più o meno aperti, è compiutissimo il tramarsi interno, assoluto anche nelle singole ripetizioni di ciak, concluso anche come sogno di future illimitate versioni. È il Metodo-Arkadin: “There is always a better way”. Si nega la forma chiusa, molto meglio un giro fulminante di palmizi, accostamenti di velocità contrapposte che collidono o si allontanano nello stesso fotogramma. Al centro i due amanti che si avvicinano o si scostano nella situazione del bacio, e intorno l’immagine circolare, palme che girano. Così oltre alla velocità dei movimenti c’è anche quella prodotta dall’espansione della scena. Allora questa pantomima, che risucchia e rigurgita Keystone, che fa meglio degli intermezzi di René Clair, che anticipa lo scandaglio architettonico di Antonioni, è uno spazio che si allunga come una faglia pronta al terremoto, così inattuale, da scartare la necessità di propaganda del suo tempo (1938), appannaggio di un’astralità che invece è di paurosa esattezza politica (pure il ‘rosso’ John Berry aiuto regia), vocazione vulcanica alla pace, mentre tutto il mondo si prepara alla guerra. Più che l’anello mancante di una filmografia mobile, Too Much Johnson è una penna sconosciuta, il tratto imprevisto e imprevedibile, quello che fin da allora un ragazzo di ventitré anni sapeva sul montaggio, due immagini vicine non sono la loro somma, ma una terza immagine. Lassù sui tetti ci sono delle altezze sfalsate, un grattacielo messo accanto a una terrazza prensile, dà luogo a un vuoto che è un cielo, dove se ci passa qualcuno velocemente, la velocità è amplificata, come il fragore di una stella.
Questo testo, che io e Ciro Giorgini abbiamo scritto appositamente per questa rivista, è apparso anche su il manifesto di martedì 7 aprile 2015. Ciao Ciro. (l.e.)
Le musiche di Carpenter sono in scope, come i suoi film. Hanno la stessa ambizione spaziale. La stessa istintiva eleganza. La stessa texture erotica e quella matericità della suspense che pochi come lui sanno imprimere al fotogramma, alla fluidità di un movimento di macchina.
Carpenter lavora ormai così raramente che la tentazione di tradurre questi lost themes in lost films - in film perduti, che non e mai riuscito a fare - è forte al punto che qualcuno ha persino provato a immaginarli: una vittima che corre inseguita in una foresta, un’altra perseguitata da un fantasma... Lo stesso Carpenter ha detto di aver concepito ogni canzone come un film a sé, composto di temi/scene diversi. Ma questo impulso alla visualizzazione è fuorviante, dato che i lost themes sono film che lui non ha mai scritto, visto, sognato, o per cui si è battuto. Completamente astratti.
Ma, ci dicono queste undici canzoni improvvisate sulla tastiera di casa, che dietro ai titoli prevedibilmente minimal (Mystery, Vortex, Night, Fallen..) nascondono sonorità barocche, synth-ornatissime, nella loro sensibilità retro (Bach come sempre, Morricone, i Beatles ma anche l’euforica cheesiness di gruppi come Abba o Procol Harum): sono questi i film che Carpenter (da) oggi è disposto a fare. “Senza pressioni di sorta, senza attori che mi chiedono istruzioni, senza una troupe che mi aspetta, una sala di montaggio in cui andare, una data d’uscita in sala”.
George Romero sta finendo un ciclo di graphic novels per la Marvel, Empire of the Dead. La prima graphic novel di Walter Hill, Balles perdues, è appena uscita in Francia. Ma se i loro scivolamenti di medium riflettono un contesto in cui per autori come Hill, Romero o Carpenter è sempre piu’ difficile fare film, lo scivolamento di Carpenter sembra rispondere a una necessità fisiologica più profonda, interiore.
Come succede nei suoi ultimi lavori, anche i momenti migliori di Lost Themes sono quelli - sempre più rari - di abbandono. Quel senso di lasciarsi andare quasi fisico, che anima per esempio la corsa d’inizio di Pro-Life (ripresa nell’apertura di The Ward) la maggior parte di Vampires e la sequenza della possessione in Ghosts of Mars... Spesso sono i riff alla tastiera di suo figlio Cody (cui si devono alcuni brandelli del disco) e la chitarra lancinante del figlioccio del regista, Sean Daniels, che scompigliano la (dis)attenzione della “maniera Carpenter” e lo trascinano - dietro alla coolness delle superfici - dentro quell’identificazione totale con il cinema e la sua fattura, che sta al cuore del romanticismo schivo, “americano”, che attraversa la sua opera.
Sono momenti di gioia, effervescenti. Commoventi, esagerati e - lui sarebbe d’accordo - quasi “ridicoli”.
Chiens perdus sans collier, le quattro mura di una casa. La casa del mondo. Le forze forti e le forze deboli… la gravità. La caduta dei gravi, dei pesi, uccelli sul ramo, trafitti, caduti, involati. Il fiume scorre, andirivieni sulle sponde de Lac de Gèneve. I quattro elementi, i quattro lati del mondo. Attrazione elettromagnetica, la mela che cade sulla testa di Newton. Il peso dei gravi… oh leggerezza del dimenticare o del ricordarsi!
Le temps passè, le temps passè… ritrovare il tempo, trovare il tempo, lasciarlo cadere. Alors je rentre a la maison. Dimenticarsi le battute, entrare e uscire di scena (dietro le quinte). A-Dieu Manoel! Guardare attraverso quella finestra, una finestra sul reale… come inquadrarla? E come intra/vedere lo slittino sulla neve, e poi rientrare, in piano sequenza, nella casa dei padri e delle madri? È il Qatre de chiffre, Potere del Quarto (buon centenario Orson!). Il Quarto! (che è il diavolo che ci mette la coda, il quaternion di cui parla Jung).
Quattro lati, quattro grandi cinematografie, dice Godard, la Russa, la Tedesca, la Francese, l’Americana… e poi La Grande Lingua Italiana, cinema senza uniforme, lingua della realtà appunto, lingua scritta del reale, scritta con i pezzi del reale (‘che la realtà non sia infine che un cinema in natura?’ diceva P.P.P., eppure non ci è dato mai vedere, in realtà, il nostro volto in PPP, ne deriva ‘che il primo e principale dei linguaggi umani può essere considerata l’azione stessa’).
Allora: rientro a casa con Le ceneri di Gramsci, dice Godard (ca parle de l’humble corruption), ed è lì che ‘cade l’ombra’, ombra e baleno, ‘come morto corpo cade’, ma si sprigiona anche da una nuvola nera una luce rosata… come è intraducibile, e in fondo inutile, il linguaggio, che, come il cinema, non può mai essere declinato ‘al futuro’(nella saletta di proiezione di Le Mèpris), proprio perché è nel momento in cui entra in azione: qualcosa nonostante tutto ‘accade’, è un continuo avvenire che può essere solo in presenza, la dove si dice, dove tutto è lingua, lingua (del) reale.
Dov’è che cade il corpo (ri-preso a volo) di Godard? E dove, dove va…dove vado? Vado dove vedo/devo. De/Voir: splendida diplopia, e certo se c’è un D1 (Di-uno, Die-un, A–Dieu Uno!) dovrà pur esserci un 2D, e se c’è un D2 (dio doppio, demiurgo), dimidiato e già divis(t)o, ci sarà un 3D tra/lasciato, somma inutilità (ma anche Somma Luce, cioè diffrazione di ciò che si ri-vela nella luce del Reale, nel buco del reale, da cui proviene quella luce, luce rosata…).
“Cade però, nell’irrisione, ogni idea precostituita di futuro” (appunto 84)
Vous vous souvenez?
Nel 1902, dopo diversi viaggi in loco, Maurice Barrès pubblica La mort de Venise. Nel 2014 Jean-Marie Straub isola nove pagine e ne fa un film, À propos de Venise, con un lago al posto dei canali. Per entrambi, la Serenissima è già perduta nel '700, quando due “cariatidi” come Goethe e Chateaubriand la frequentano.
Tre punti nello spazio, ciò che resta di un movimento che immagino da sinistra a destra. Tre inquadrature fisse. 1) Un tronco d’albero sulla riva del lago. 2) Un grosso ramo che posa sull’acqua. 3) Una donna seduta, un microfono, un prato e il lago alle spalle. Il testo re-citato, le pause, le cesure: gli a capo corrispondono a precisi stacchi sull’asse. È un moto ondoso testuale, tipografico, che si lega a quello lacustre. Idea di ritmo e contrappunto: la massa d’acqua, la luce, le anatre, gli insetti, il testo. Tre inquadrature. Poi uno stacco, un blocco di nero, ci catapulta davanti agli occhi un’inquadratura di Chronik der Anna Magdalena Bach (1967): BWV 205, Zerreißet, zersprenget, zertrümmert die Gruft (Lacerate, devastate e distruggete la tomba). Con un ghigno selvaggio, Bach aveva composto il suo “dramma per musica” pensando a Virgilio e a Eolo, con i suoi venti distruttori. Sono loro che creano le onde? E cosa distruggono? (Trop tôt trop tard – 1982, due grattacieli gemelli riflessi nel Nilo si sfaldano nello sciabordio dell’acqua.)
Il recitato e l’aria di Bach sono posti in posizione inedita – dialettica. Si pensi a Proposta in quattro parti, Cézanne o al recente Kommunisten: è la stessa rigidezza del concetto di filmografia ad entrare in crisi. Logica dell’essai – non si tratta di trasgredire una forma, quanto di testarne i limiti, coglierne la dimesione prismatica verificandone le variabili.
Giocare la partita coi flutti, direbbe Mallarmé. Creare correnti sotterranee tra i film. Forse la storia del cinema non è altro che il processo interminabile di una “ricaduta” filmica simile al moto ondoso. Nulla è fisso.
ritorno di macchine, di automobili desideranti in Need for Speed. L’officina Lumière si riapre in colori hopperiani, assumendo il nome di Marshall Motors. Motori rombanti in 3D che percuotono lo schermo senza mai farlo deflagrare nel digitale, che finge di non esserci più, o di non esserci ancora (stato), nonostante i bolidi veloci e furiosi siano già magnificati alla settima potenza. Non è solo Tobey, il loro pilota, ad avere perso il padre, tutti i ragazzi del garage Waugh, gioventù infiammabile, sembrano orfani, comunità autosufficiente di fratelli senza immagine primigenia, ragazzi nel loro hangar senza domani, su una strada, nemmeno più coppoliana, accarezzata fin dall’inizio da un dolly discreto ma anche romantico, già melò, prima che si materializzi la protagonista assoluta del film, la pulsante energia che trapassa dal loro guardarsi al guardare in/la macchina, l’auto rimessa a nuovo, più veloce che mai. Nessuna traccia di videogioco nelle strade peckinpahiane, anarchicamente violate da Tobey in quasi 48 ore, verso il sole dei grand canyons attraversati da bolidi come stati di alterazione, volontà di giustizia e di verità, più che di vendetta, dal pensiero forte e dalla forma lieve di un cinema che il regista Scott Waugh, ex stunt-man, sembra dedicare a se stesso e ai suoi compagni di gioco, di squadra, alle controfigure che hanno dato forma, nel passato, ad acts of valor (Speed, Fuga da Los Angeles, Spiderman, xXx, tra gli altri) nei quali la vita, come è sempre accaduto nel cinema peraltro, e non solo per gli stunt-man, viene messa in gioco per amore della simulazione filmica. Uomini acrobati come figurazione letterale della morte e della vita davanti alla macchina da presa. È in questo fingere l’on the road, dove il maschio e la femmina sembrano intercambiabili, dove il guardarsi negli occhi è l'unico espediente per non cedere all’angoscia del vuoto, dove il (cinema) moderno sembra non aver mai avuto un post, dove non sembra più esistere (e si fa finta non essere mai esistito) un regista Monarch, (dove un Michael Keaton, lo stesso Waugh?, non ancora birdman, ma nemmeno più vanishing point, è un'immagine incerta, pseudo demiurgo perennemente in Rec), è in questa mascherata da pop corn movie, è nel suo essere così flagrantemente lontano da qualsivoglia riconoscibile canone che dimora l’irriconoscibilità del film, il suo farsi darsi fuori tempo massimo, il suo correre al faro in pieno sole, pronto a gettare luce su un’altra lentissima velocissima corsa navigazione che non avrà, credo, mai luogo. Né tempo.
Forme di acquarello in dissolvenza incise su carta di riso, fluttuanti e irrequiete, La storia della principessa splendente (Kaguya-hime no monogatari) cattura i fantasmi della favola millenaria (Il tagliatore di bambù) e li sospende in una spazialità senza limiti, i contorni in continua fuga nella zona bianca del non-essere. Un limbo candido dove l’immobilità del segno è scosso da vibrazioni acustiche e sensoriali. Ideogrammi del X secolo macinati al computer da Isao Takahata.
Evoluzione di un germoglio di canna e di una bambina in miniatura coperta di broccato rosso che cresce miracolosamente nel palpitare delle linee aperte. Un Voyage dans la Lune in senso inverso. Kaguya scende dal globo luminescente per sottrarsi al cerimoniale divino, svincolarsi dal tempo eterno e provare l’ebrezza del vento e delle stagioni, per vivere. Ma tra cielo e terra, irrealtà e materia, c’è solo un’esile barriera. Né l’aldilà né l’aldiqua garantiranno felicità alla principessa caduta dalle nuvole, circondata da bramosie sessuali, rapacità e aspiranti mariti insulsi e coronati ai quali chiede pegni d’amore introvabili: la sacra ciotola di Buddha, il ramo di un albero d’oro, la pelle di un topo di fuoco cinese, il ciondolo di un drago, la conchiglia nascosta nel ventre di una rondine.
L’inchiostro di china torna a recintare l’immagine, la zona bianca si restringe. E alla ricerca della frattura tra sogno e il suo rovescio, flebile passaggio di libertà, fuori dalla tradizione e dal presente, Takahata si allontana dalle tante versioni della fiaba ispiratrice di manga, videogiochi e serie tv.
Il film si inchioda nello sguardo perduto di Kaguya che esita a salire sul carro sontuoso venuto a riportarla nell'astro natale, quando nel testo originale, delusa dagli uomini, aspettava con trepidazione gli esseri celesti. Ed è in questo fermo immagine che l’animatore giapponese trova - sequenza spumeggiante di trasparenze e scintillii d'oro – la via per demolire il mito, e le principesse smorfiose di Frozen. L’incanto dell’impossibile che avrà luogo.
Ci sono anche oggi dei grandi cineasti, e da tempo sappiamo che non devono per forza essere giovani, la vecchiaia è anzi il luogo in cui si rafforza la grandezza (da Ford a Dreyer a Matarazzo a de Oliveira). Scoprire che un cineasta in cui abbiamo potuto percepire anche qualche oscillazione di livello, “giunga” oggi a una inequivocabile grandezza ci rende felici. E naturalmente la cosa non viene intesa, e perlopiù si tratta Torneranno i prati con discorsi di doveroso rispetto. E il suo toccare la grande guerra come un umanitarismo senile, consono alla proiezione alla presenza di Napolitano di un film sostenuto dal Ministero. Anzi, c’è chi sottolinea che sul set Olmi dovette affidarsi a un qualsiasi Zaccaro, non cogliendo che in ciò egli alfine raggiunge la libertà di Rossellini verso il cinema. Il titolo stesso del film simula un’adesione all’ottimismo del ritorno in vita, ma vuol dire altro, che la vita successiva è stata condannata a dimenticare le morti, a mutare il fertilizzante dei cadaveri nell’eterno ritorno dei prati. Il “regista cattolico” che in E venne un uomo seppe problematizzare il corpo del papa nella reincarnabilità di un attore, che in L’albero degli zoccoli potè interrogare la sicurezza cristiana del sacrificio animale nel rito della sopravvivenza degli esseri umani, che in Centochiodi toccò il lato diabolico della santità, giunge qui a sussurrare una bestemmia verso un Dio che non ha salvato gli uomini a cominciare da suo figlio. Giunge anche al nichilismo della natura (paesaggi, animali...) che la guerra fa lambire come territori irraggiungibili proprio quando appaiono vicini allo sguardo come nello stupore di Stavros Tornes; e all’eclissarsi della donna di cui il soldato nella distanza trattiene solo la natura del tradimento. Dobbiamo rivedere gli Olmi che seppero accogliere e distornare le “rivoluzioni” degli anni '60 e '70 perché in questo presente del 2014-2015 egli raggiunge l’indispensabilità più pura.
Antropologhia non ha futuro perchè innanzitutto è fuori dalle mode culturali e dai modi imprenditoriali dello spettacolo dominante e della sua economia (a partire da quella festivaliera). Perchè è scomodo a vedersi, non produce bellezza, è il ritratto di una catastrofe (la nostra) senza alcuna consolazione (a partire da quella estetica). Perchè Malastrada, il collettivo che lo ha realizzato, non si vuole far digerire come un qualsiasi fast food e non si offre al pret-à.porter. E a ragione. In qualche modo pratica il motto debordiano: il futuro sarà un rovesciamento di situazioni o niente. E in questo senso il futuro del film gli è esterno, legato a quanto il film può spostare, provocare, rivoltare (nel presente). Per questo riescono a farsi cacciare dalle mostre d’arte contemporanea a cui sono spesso invitati in giro per l’Europa. Malastrada produce conflitto. E lo produce in senso politico, non solo ‘estetico’, e non solo a parole. Il film non ha nulla di feticistico, nemmeno in senso negativo. Piuttosto il contrario.
Antropologhia è un film che non solo non ha futuro, ma non ha nemmeno un passato. Proiettato solo una volta a Roma al Teatro Valle Occupato senza la bellissima ora finale, La scomparsa dell'ombra. Finì lì in malomodo. E nulla più. E invece è un film prodigioso, che ha la pretesa di raccontare un popolo - il logos di un luogo (la Sicilia che c’è attorno a Paternò e lo Stato a Palermo e nei vuoti di Montecitorio) - attraverso le sue stesse immagini, autoprodotte, autoritratte (ovali, come le foto al cimitero), in epoca pre-smartphone (già lì, anzi qui, antropologicamente, a segnare quel futuro perpetuo che è questo presente). E forse non è nemmeno più un film, non lo è in senso più o meno classico né in quello ‘sperimentale’. Non appartiene a nulla di già visto, retoricamente. La cosa che gli va più vicino è il flusso televisivo da una parte, una sorta di montaggio automatico, per schegge, di durata variabilissima, letteralmente fuoritempo (anche e soprattutto quando filma il presente), e Lumière dall’altra, appunto: "l’invenzione senza futuro".
Sintesi inaspettata tra eidetismo (in modalità di rimando, concentricità di immagini), fenomenologia e, in mezzo, ermeneutica come essenziale tramite linguistico (tra fenomeno e sarabanda iconica), Jauja scava dentro quella ferita aperta, quell’aporia che è l’immagine cinematografica e, in genere, ogni congrua sedimentazione di senso, cioè votata all’alterità, all’invisibilità, all’incongruenza. Sintesi non didattica, gnomica, ma verificabile nella disgiunzione, in un procedere di senso che esce cioè dalla sinossi per altre ipotesi che si perdono dentro le spire dello spazio e del tempo: vortice nel mare di Solaris o semplice sasso lanciato in uno stagno, che è poi (o prima), per cerchi concentrici sull'acqua, la scogliera argentina, nel finale tarkovskiano.
Appare subito brulicante e inquietante lo squarcio sul fenomeno costiero, perfettamente digitalizzato e incorniciato: spazio di roccia ricoperto dal verde smagliante delle alghe, così fulgido e fluido nelle riprese in macchina digitale, che viene come smorzato e imprigionato dal quadro in 4:3, per ricondurlo a illustrazione, cosa morta, crosta ottocentesca. Ed è questa la natura del film: il conflitto tra griglia anticante, archetipica, che tenta di calcificare la dinamica della veduta, e volontà da parte del fenomeno, delle essenze delle cose, di muoversi, avanzare per liberarsi dei contorni. Ma Jauja in quanto apparente neutralizzazione di forze non è certo un’involuzione del cinema di Alonso; anzi è il sorprendente scarto in avanti, verso la coscienza dell’innata velleità essenziale dell’immagine in movimento, nel metabolismo di una dialettica di continuo annichilimento e rilancio della cinetica, tra le polarità della ripresa digitale fluidissima (più viva del mondo stesso) e la tensione ossificante (tanto maggiore in quanto in un 4:3 smussato) esercitata dai bordi.
Allora dentro la preponderante mimesi di Alonso Jauja fa emergere quella tentazione onirica che era come soffocata dal volume violentemente naturalista di un film come Los muertos; come un cortocircuito favoloso alla fine del viaggio del capitano Dinesen, stilizzato nel soldatino di legno (che è chiave onirica lynchiana che apre l’orizzonte alla ridda eidetica) ad evidenziare la natura prismatica del film. Ma non è il sogno fatto da Ingeborg nell’enorme casa danese, o non è solo questo. È il sogno del dispositivo-film-prisma attraverso cui si vedono infinite realtà in regime di straniante, metamorfica eppure intima reciprocità.
Due spettri continuano ad aggirarsi per l’Europa, quelli di Ventura e Pedro Costa, un sottoproletario e un artista. Già questo basterebbe a farci sussultare, ma c’è di più. Pedro è un sincero intellettuale che ama il prossimo suo e conosce Baudelaire, non si avventa sugli sfruttati coi metodi sgarroni italiani né propina quelle camurrìe cattocolonialiste da “documentaristi europei”; piuttosto abbraccia Ventura come Nietzsche il cavallo a Torino. Mette il suo cuore a nudo, cosciente che per essere sublime senza interruzione deve vivere e dormire davanti a uno specchio, lo trova in Ventura. Entrambi non trovano posto sulla terra, la Civiltà della guerra e delle macchine ha sostituito queste agli uomini e alle bestie, e come non ha più bisogno dei cavalli e dei fanti ne ha ancor meno dei “cantori”. Ce le suonano e se le cantano da soli e il sottoproletariato e gli artisti sono gli strati che più ingrossano le fila nei tessuti marci dell’uomo d’inizio millennio.
Ventura che attraversa bui tunnel sotterranei, scosso dal Parkinson e frantumato dalla fatica, ricorda molto più Eusébio da vecchio che Ethan in The Searchers. Anche Pedro, che non possiede il piacere di De Oliveira, che non prova la voluttà di Monteiro, somiglia molto più a CR7 e Mou, ossessionati dalla perfezione e divorati dall’ansia di prestazione. D’altronde il cinema (inteso come accumulo dello spettacolo) e lo sport sono le due vie offerte ai dannati della terra e della storia dopo che la Civiltà dalle radici giudaico-cristiane ha ottenuto il trionfo in tutti i campi, soprattutto quelli di concentramento. Ventura e Eusébio hanno una storia in comune ma un fato opposto. Pedro Costa e Ventura hanno una storia opposta ma un fato comune e come in una fiaba di Sergio Citti partono, questa volta per le cornici del Purgatorio. Non sono sicuri che in vetta si trovi ancora il Paradiso Terrestre, affrontano questa odissea senza Itaca e senza Nostos ma piena di Saudade (qui come nostalgia del futuro), sperando di incontrare Euridice e farla sparire come l’inconsolabile Orfeo di Pavese/Straub.
Non è dato sapere come va a finire, Pedro rimane dietro una finestra come Irene nel finale di Europa ‘51 mentre Ventura un po’ più avanti si riflette sulla vetrina di una coltelleria.
Pare che il primo bisbigli: “Io cercavo, piangendo, non più lei ma me stesso. Un destino, se vuoi. Mi ascoltavo.”, mentre l’altro urla: “La stagione che avevo cercato era là in quel barlume. Non m’importò nulla di lei che mi seguiva. Il mio passato fu il chiarore, fu il canto e il mattino. E mi voltai”.
Affrontare di petto il fantasma della visione è la situazione estrema di American Sniper. Film isolato e nudo, sconta senza paura la scabrosità scabra del soggetto facendo rimbalzare su chi lo guarda l’intensità concentrata di tale paura, e la sfida frontale al desiderio spettacolare. Non meno di un godard, eastwood si pone in regia raffinando il proprio autoritratto e provocando gli altri col gioco della distanza/vicinanza delle immagini. La purezza nera del film colpisce nel segno: fin dall’inizio sarà chiara l’invisibilità della cosa, e che la cosa è l’invisibile. Il west del cinema ha già compiuto diversi giri del mondo. Al cecchino il compito insensato di dare un senso alla singola pallottola, nella redroom della sua arma si forma e si disfa l’immagine di morte. Mediatore fatale tra un dio e il destino, sembra il resto ultimo dell’umano in una guerra mai più riconoscibile. L’immagine è distanza irrimediabile, che non può essere colmata scendendo sul set, nel qual caso sei tu stesso mutato in ‘immagine’; (‘se mi vedi sei morto’; A Casa dopo l’uragano di minnelli, l’esitazione prima di sparare, quella di deniro (Il Cacciatore) di fronte al cervo; o di walterpidgeon con hitler nel mirino in ManHunt; a casa non manca la bibbia, la prima lettera di San Paolo ai Corinzi –quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che era da bambino. Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio, allora invece vedremo faccia a faccia - In questa notte che fugge dall’alba accendo meccanicamente la tv e trovo i titoli di testa di Come in Uno Specchio di bergman - Lontano sta l’appassionante Redacted di depalma e lontanissimi restano i neoclassici della bigelow - Irresistibilmente mi trovo a evocare (nonsoperchè; la storia del cinema è sempre da rifare) Romantico Avventuriero (Gunfighter, 1950), psicodramma western dark sublime di henryking con gregorypeck)… E il cecchino record rimasto bambino mi fa assurdamente pensare a un altro uomo senza qualità (vedi magari i bellissimi pezzi di musil sulla rivista delle truppe austriache al fronte). Per straight che sia lo shooting, con la cadenza dei quattro ‘viaggi’ del protagonista sul fronte medio-orientale tutto (perché casa e teatro di guerra hanno la stessa distanza filmica dall'immagine, sono lo stesso cinema), precipita verso la nuvola tempestosa di sabbia che acceca e salva fino a un ‘vedere faccia a faccia’ con gli occhi stretti, intravedendo nulla (come non ricordare qui Fear and Desire, il film primultimo di kubrick, il più ‘faccia a faccia’ e il più sottovalutato del ventunesimo secolo?). Eyes Wide Shut fu già Eyes Wide Shot.
Collocato fra il terzo e il quarto capitolo dei Transformers, Pain and Gain (Dolore e guadagno), è il suicidio commerciale di Michael Bay. Film costato relativamente poco rispetto alle macchine cui il regista ci ha abituato, è una sorta di catalogo delle brutture e delle mostruosità. A vederlo senza badare ai credit, si penserebbe a un film di George Armitage periodo Miami Blues. Stesso tocco ultrasgradevole, medesima spietatezza nei confronti dell’idiozia. Ma è un film di Michael Bay, probabilmente il cineasta di maggior successo economico degli ultimi decenni. Ed è un fallimento, voluto, cercato. Praticato come se il cinema non avesse futuro. E non è un caso che all’inizio del quarto capitolo della saga dei Transformers, il robot-camion si trovi dimenticato in un cinema in disuso. Bay, in termini strettamente industriali, si concede il lusso di produrre il film a medio budget che a Hollywood nessun grande produttore ha più intenzione di fare. Si inizia a parlare di produzione a partire da 100 milioni in su. Bay un passo indietro. Il futuro può stare alle spalle, non necessariamente sempre davanti agli occhi. Si proietta all’indietro in un’ipotetica zona temporale settantesca, recupera un’arrogante anarchia formale che sa molto di Corman gonfiato agli estrogeni e, così facendo, fornisce anche un preciso indizio su cosa è cambiato nel cinema americano dagli anni Ottanta in avanti. La follia di Pain and Gain, il suo violento e sgradevole nichilismo, sono il segno della consapevolezza di chi, in assenza di un discorso critico, si permette di autoprodursi il discorso sullo stato delle cose dell’industria cinematografica. Fallire, economicamente, realizzando il film più teorico prodotto a Hollywood da un regista che non si chiama né Fincher e né Anderson. E soprattutto, significa mettere in luce quale è il pensiero cinematografico che non avrà più cittadinanza né tanto meno futuro a Hollywood a meno che non si accetti il rischio di un inerente vizio di forma. Ed è solo così che si spiega poi il luddismo merceologico dei Transformers.
Foudre, folgore, di Manuela Morgaine, 4 stagioni all’inferno. 1. L’autunno. Francia del sud: i cacciatori di saette fotografano il buio lacerato e la mappa dei fulminati. I sopravvissuti alle scariche da 300 milioni di volts mettono in scena il trauma e le evoluzioni impazzite delle sfere di fuoco.
2. L’inverno. Dopo il doc, l’horror: i depressi catatonico-malinconici ritrovano il “doppiaggio vocale” del loro dolore muto nell’elettroshock, perchè uno psichiatra eterodosso, pronipote afro-lusofono di Fanon, imprigionata quella sovrumana scarica cosmica nella macchina, schiaccia con quel male più forte e veloce un male più debole ma indelebile. 3. La primavera. Il cinema-saggio, di sommo valore archeologico perchè i templi siriani che ammiriamo non esistono più. Rasi al suolo da Assad. In Aleppo, tra i ruderi preislamici, il “folle” stilita visse secoli fa per 40 anni sulla colonna trovando dio, facendosene attraversare e sopravvivendo all’illuminazione non solo mistica: i fulmini fecondano la terra di kama, raro tartufo afrodisiaco. 4. L’estate. Il cinema-teatro: un dramma di Marivaux sulla battigia, La Disputa, l’amore è un colpo di fulmine anche tra due corpi educati illuministicamente come automi…
Se il cinema vendica i vinti del passato, è “spettrografia di Marx”, visto che è trappola di luce vellutata, e, nella ricezione, anche “sedia elettrica”, esperienza eterotopica e eterocronica, vendicherà anche le vittime dei fulmini (sacerdoti e campanili delle chiese, però, i più colpiti)? Per sfuggire alla bellezza sublime ma esiziale della scarica “anarchica” si consigliavano corone d’alloro. Già. Il film è anche perversamente, alchemicamente, dalla parte della luce. Come se indossasse la mitra sacerdotale che, prima del parafulmine, proteggeva i popoli. Il racconto egizio della creazione ricorda che l’Antenato tese l’arco, il buio si squarciò e dalla sua ferita sgorgò un fiotto di luce. Il cappello dei faraoni clematidi ha la curvatura dell’intensità luminosa nelle varie ore del giorno. La curvatura di Interstellar, di Si alza il vento… La curvatura opposta alla svastica hitleriana.
Jim Carrey, alcuni mesi fa, in occasione dell’uscita del sequel, vent’anni dopo Dumb and Dumber, a una domanda sui suoi progetti futuri rispondeva: “Distruggere Hollywood”, aggiungendo che, molto probabilmente, aveva già iniziato a farlo. Dumb and Dumber To corrisponde istintivamente a questo desiderio e lo mette in atto, con lo stoccaggio massiccio di elementi solitamente intrattabili, in quanto radicalmente inappropriati, se non apertamente banditi dalla forma-commedia, fatta eccezione per le leggendarie sperimentazioni, macabre e sublimi, di Wilder e Edwards - via Stroheim - condotte dentro e contro Hollywood, che trovano qui una sorprendente continuità.
Malattia, handicap, demenza, vecchiaia, cateteri, ospizi, agenzie funebri, disfacimento, scorie e liquami organici di ogni tipo, morte: a squadernarsi c’è un intero catalogo, indigeribile e sovversivo, che riconfigura quei materiali che hanno sempre strutturato il naturalismo, in cui Dumb and Dumber To si potrebbe iscrivere come reperto regressivo, destinato all’autodistruzione, nel micidiale intreccio che lo muove tra esplorazione pulsionale, spostamento e ripetizione.
Harry e Lloyd sono ancora una volta insieme, anche come materializzazione del doppio e autoironico rispecchiamento degli stessi fratelli Farrelly, che li immergono senza scampo in un on the road sgangherato che, ricalcando la serialità infinita di occasioni mancate del primo, non smette di sfuggire, e qui sta la sua grande singolarità, a ogni reale confronto. Niente qui, infatti, sembra più funzionare, dai tempi comici delle gag, disinnescati o largamente sabotati, alla stessa scorrettezza, drasticamente impoverita, dei contenuti. Alla fine, nella coazione a ripetere, qualcosa è davvero cambiato; non si sorride più dell’innocente malizia dei pupazzi di neve con la carota piantata nel posto sbagliato, o di certe pedicure surreali, eseguite a colpi di sega elettrica. Cosa rimane, allora? I resti, l’insopprimibile vitalità negativa delle pulsioni, il defilè degli oggetti “piccolo a”, il poster polveroso di Bo Dereck in Ten, le gabbie per uccellini, ovvero la prigione ossessiva dei tic di linguaggio, il disegno feroce del tempo sui corpi, la forza inarrestabile della regressione, appena interrotta, in uno squarcio poetico, dall’incontro struggente con l’antico furgone a forma di cane, Mutt Cutts, che, come la slitta Rosebud, testimonia l’incursione, in forma di miraggio, di un cinema - e di un discorso - destinato alle fiamme e alla distruzione.
“Che vittorie, che vittorie?”
Le acque dell’Oceano di Amor de Perdição, da cui riaffiorano le lettere di Simão dopo il tonfo dei due corpi negli abissi, sono le stesse da cui in O Velho do Restelo, “nascono” Le Lusiadi, emergendo a loro volta tra le onde? Tra i meandri di questi 18 minuti di strati sovrapposti, di doppi fondi e di fili solo apparentemente disvaganti, Oliveira orchestra un giocoso e potente “montaggio delle attrazioni” in cui si alternano in scena (o nello studiolo della sua mente come specchio magico) Don Chisciotte e Camões, Teixeira de Pascoais e Camilo Castelo Branco, citazioni da Doré e Kosintzev, oltre che dai propri stessi film. O Velho do Restelo riunisce Spagna e Portogallo come unica, strana penisola tra oceano e deserto, tra Atlantico e Sahara, in cui si giuntano e si dissolvono in cifrato destino di disfatta e di perdizione i fantasmi di Don Sebastião e di Don Chisciotte, di Camilo il Penitente e del vegliardo sentenzioso del V Canto delle Lusiadi.
Ormai i film bellissimi (tra i più belli degli ultimi due o tre anni) frutto del lavoro di ripensamento e di riscrittura operato da diversi autori con frammenti dei loro film precedenti (o anche con film interi), sono tanti, uno diverso dall’altro, e solo apparentemente “testamentali”, anzi animati da un’energia che saltella e danza agilmente ora giocosa ora disperata sui dislimiti di metamorfosi cosmiche: Paulo Rocha (Se eu fosse ladrão…roubava), Bressane (Rua Aperana e O Batuque dos Astros), Cardoso (Bacanal do Diabo), Tonacci (Já visto, jamais visto), Straub (Kommunisten). Un movimento che era stato preannunciato fin dal 1988 da Pollet nel misconosciuto Contretemps, il cui titolo polisenso (musicale ma non solo) può forse riunirli tutti. La sublime e inattuale pratica del ripensare e del riscrivere, infinita e rischiosa, era già di Cervantes quando a dieci anni di distanza dalla prima intraprese la seconda parte del Don Chisciotte (dopo l’apparizione della prosecuzione apocrifa), un libro a sua volta intessuto nella pura costruzione metaletteraria, nell’autocitazione e nel montaggio. Oliveira non ha potuto realizzare il suo Don Chisciotte, ma O Velho do Restelo rappresenta (attraverso il vortice intertestuale con Camões, con Camilo, con Pascoais e con… Oliveira stesso!) la più sorprendente rilettura di questo romanzo dall’ “ironia ineguagliabile” e suo tramite di tutta l’opera sempre più labirintica ed enigmatica del suo lettore ultracentenario, sulla cui ironia possiamo a nostra volta sicuramente scommettere.