"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

SPECIALE Ni un art, ni une technique (2)

Nice Fuck! (a proposito di Vertigo Rush)

Rinaldo Censi

François Truffaut ha appena fatto in tempo ad esprimere un pensiero a voce alta, ricordando la lentezza di Vertigo, che Alfred Hitchcock lo incastra subito, fulminandolo con lo sguardo. «Esatto, ma questo ritmo è perfettamente naturale, perché raccontiamo la storia dal punto di vista di un uomo emotivo. Le è piaciuto l’effetto di distorsione, quando Stewart guarda nella tromba delle scale del campanile; sa come è stato fatto?». La risposta di Truffaut non tarda ad arrivare: «una carrellata indietro, combinata con un effetto di zoom in avanti».

Era dai tempi di Rebecca che Hitch aveva in mente di realizzare questo particolare effetto visivo. «Già quando stavo girando Rebecca, nella scena in cui Joan Fontaine sveniva, volevo mostrare che provava una sensazione speciale, che tutto si allontanava prima della caduta». Ma all’epoca c’era un problema da risolvere: «Restando fisso il punto di vista la prospettiva deve allungarsi». Il tempo passa e il problema trova la sua soluzione una quindicina di anni dopo, in Vertigo, grazie a dolly e zoom usati simultaneamente. Un modellino della tromba delle scale appoggiato orizzontalmente per terra: carrellata-zoom sul piano.

Una cinquantina di anni dopo il film di Hitchcock, un giovane filmmaker austriaco, Johann Lurf, ha ripreso in mano questa soluzione tecnica, riducendola a soggetto di un suo film, Vertigo Rush. Una corsa vertiginosa. Mentre la macchina da presa si muove, arretra o avanza sulle rotaie del carrello, le lenti dello zoom si attivano modificando il nostro angolo di visione. L’effetto è spiazzante: l’inquadratura sembra quasi immobile, eppure assistiamo ad un’amplificazione, una distorsione della profondità di campo. La prospettiva insomma si allunga o si ritrae a seconda del movimento combinato, in avanti o indietro. Lungo i 19 minuti di film, Lurf forsenna temporalmente questo “effetto vertigo”, esplorandone tutte le potenzialità. Con un’acredine e un’attenzione “strutturalista”, gira il film in una sola ripresa, pianificando con un computer il tempo di esposizione dei fotogrammi: si passa da 1/25esimo di secondo a 30 secondi. Transitiamo dal giorno alla notte in 19 minuti. Il risultato è un’alterazione qualitativa dell’immagine. Un lavoro di accelerazione e compressione temporale inaudito, capace di captare tutta l’instabilità della luce fissata su pellicola 35mm.

Girato in un paesaggio boschivo, Vertigo Rush somiglia a uno di quei gesti compiuti nel paesaggio dagli artisti di Land Art. Un’esperienza telescopica, in cui la variazione e la ripetizione di un gesto tecnico articolano la nostra percezione del paesaggio, permettendoci di testarne i limiti, lavorando su una serie successiva di sfasature temporali. Risultato: il sito, da luogo arcadico, luminoso, comincia a perdere definizione, si sfalda. La continua accelerazione dovuta al lavoro di time-lapse, trasforma lo spazio in un ambiente cromatico: la luce si altera, giunge a noi modulata dalle nuvole, fino a venire divorata, dando luogo a pattern monocromi verde, rosso, fino al nero: il bosco si trasfigura. È la notte che avanza. Lo spazio si deforma, gli alberi sembrano porsi lateralmente, creando un corridoio naturale per semplice capriccio ottico; col buio i tronchi si trasformano in pareti marroncine poste ai lati di uno spazio profondo, cieco. Finiamo in una vera e propria esplosione di luce bianca, in un crescendo di onde sonore, un riverbero elettronico che ricorda - è fin banale ricordarlo - Wavelength di Michael Snow.

Insomma, una macchina compie esercizi fisici all’aria aperta. E a pensarci bene, forse in Vertigo Rush, come nei romanzi di Raymond Roussel, in Alfred Jarry, come in <------> o La Region Centrale di Michael Snow, questa macchina è celibe. È una macchina impossibile, inutile, che non ha uno scopo preciso se non quello di captare vibrazioni atmosferiche, o magari di essere «vista, nello stesso tempo, nella prospettiva immediata come immagine sessuale, e nella prospettiva anteriore come figurazione del Tempo».

Filmare delle intensità luminose. Oppure, un amplesso. Michael Snow non ha mai fatto mistero del suo interesse per il sesso. «Wavelength literally "cums" at the end: the last thing you see is liquid», argomenta in un’intervista con Scott MacDonald. Vertigo Rush, con quel suo movimento percussivo in crescendo, fino alla scarica luminosa finale, non risulta estraneo a tutto questo.

In un questionario su Wavelength, alla domanda: perché un film di 46 minuti? Snow aveva risposto: «Nice Fuck!» Vertigo Rush ne dura 19. Resta ugualmente memorabile.

 

 

Nota:

Selezionati per anni al Milano Film Festival, i film di Lurf sono stati mostrati nel 2015 a Filmmaker Festival, in un programma curato da Tommaso Isabella.

 

Per Hitchcock, si veda F. Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Pratiche, Parma, 1977; sui tempi di esposizione della pellicola, rimandiamo a S. Payne, “Sequence”, #1, no.w.here, London; per le macchine celibi, M. Carrouges, “Come inquadrare le macchine celibi”, in H. Szeemann (a cura di), Le macchine celibi, Electa, Milano, 1989; l'intervista a Michael Snow appare in, S. MacDonald, A Critical Cinema 2. Interviews with Independent Filmmakers, University of California Press, 1992; per il questionario su Wavelength, vedi S. Hartog, “Ten Questions To Michael Snow”, ora in The Michael Snow Project, The Collected Writings of Michael Snow, Wilfrid Laurier University Press, 1994.

 

 

Solo un gioco

Alberto Momo

La serata era così calda che mai avrei creduto di incontrare il cinema. E tanto meno vederlo liberarsi da delle lenti che imprigionano dei cristalli liquidi. Ma si sa, il cinema lo trovi dove meno te lo aspetti. Almeno così mi succede negli ultimi tempi. È l'ospite inatteso, delle volte mascherato, altre nascosto, che ti sembra di riconoscere in un volto illuminato su un tram che ti scorre davanti o nelle luci di una città che di notte si dissolve sulla superficie di un fiume. Così vado a cercarlo inforcando la bicicletta, invece di entrare in una sala (soprattutto ora che le arene estive sono più rare delle lucciole).

 

Attraversata la città, mi trovo sprofondato in un divano incassato nella piega di un sottotetto. Nel Paradiso di Feif, come lo chiamano i miei figli. Pochi metri quadri cucinati dal sole qualche piano sopra l’abitazione di un caro amico che qui organizza la sua dolce reclusione. Ogni oggetto è una traccia. Di un mondo di affetti, di un paesaggio che accoglie quel che sopravvive della sua infanzia. Pile di videogiochi, qualche volta raccolti in scrigni pop e fantasmagorici. Modellini in scala di personaggi tra i quali non ne riconosco che qualcuno di Guerre stellari. Poster di eroi digitali nobilitati da scritte autografe in giapponese. Un grande schermo al muro con tentacoli di cavi che animano scatole tecnologiche dai display illuminati. E altri oggetti dei quali non arrivo a immaginare una funzione.

 

Dopo deliziosi gomitoli di lana, e i miei goffi tentativi di evitare il suicidio di un gattino con colpi disordinati su un joypad, decido di abbandonare quell’oggetto vibrante, che continua ad agitarsi in modo inquietante sul cuscino di fianco, e di diventare solo uno spettatore, avvolto nelle volute del caldo, del fumo, del divano e di quelle convulsioni elettroniche che si agitano sullo schermo. Sono consapevole della mia codardia, o anche solo della pigrizia che mi porta a tradire le regole del gioco. Non sono un videogiocatore, non posso permettermi nuove dipendenze; e quelle che seguono sono solo piccole note di un occhio in astinenza che tradisce l’esperienza completa del gioco, e quindi in fin dei conti la natura di quest’opera ibrida, per ricavarne una dose di cinema.

 

Un’assolvenza dal nero. Poi una luce gialla, e due tendine che come otturatori oscurano ogni tanto l’immagine: un battito di palpebre, siamo dentro un occhio. Una soggettiva digitale che mima il dato biologico. E il mondo ci appare. Prima il braccio poi il corpo di una meravigliosa ragazza elettronica prende il campo. Si gira e guarda in macchina, in primo e primissimo piano si prende cura di noi, chiunque noi siamo. Il suo volto conserva tratti dell’umano, codificato da decine di macchine fotografiche che hanno avvolto il corpo di una giovane attrice e che hanno digitalizzato i suoi gesti catturando i suoi movimenti (ma tutto questo lo scoprirò solo più tardi).

 

Ci guarda e anche il nostro occhio si cristallizza. Polvere e granelli di sabbia incrostano la superficie dello schermo che si dichiara così l’occhio di una macchina da presa. Senza soluzione di continuità. Non ci sono stacchi. Solo precisi e continui scivolamenti fuori e dentro il nostro corpo. Siamo in una tempesta di sabbia, in una situazione di pericolo. I movimenti della ragazza si fanno più concitati, comunica con qualcuno, chiede aiuto con una ricetrasmittente, una musica sinfonica plasma l’erotismo e la malinconia della scena, di cui anche questa volta scoprirò solo più tardi il significato.

 

È una scena di raccordo dell’ultimo gioco di Hideo Kojima, Metal Gear Solid 5. Ora le chiamano cutscenes e la definizione che ne dà Wikipedia è troppo filosofica per non essere trascritta. È un tempo nel videogame dove il gioco si interrompe e il giocatore vede qualcosa accadere.

 

Ma in questo caso non è una sospensione. Perché il piano continua nel gioco come in un unico lungo pianosequenza, senza fratture di ordine estetico o di definizione grafica. Quello che sorprende sono piuttosto i ritmi, i tempi appunto di questi accadimenti, le linee dei movimenti di macchina e una drammaturgia che prende forma direttamente dal piano. O più semplicemente la libertà della visione che qui si confronta con un mondo aperto, una scena virtualmente infinita dove queste scene sono spesso nascoste, occultate come in una ghost track. Piani che potrebbero essere stati rubati a film di autori radicali che qui diventano i tasselli di una narrazione che può appassionare anche dei ragazzini.

 

 

Quando sudato come il mio personaggio mi sollevo a fatica dal divano, quel che resta è una nostalgia di cinema, e la nostalgia di un corpo che per un attimo è stato mio. Nulla come il titolo di questo gioco può descrivere questa esperienza di mancanza: Il dolore fantasma. Tecnica? Arte? Cinema? In fondo, è solo un gioco.

 

 

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