"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)

SPECIALE Any where out of the world!

Corpo estraneo

Sul finire della luce pomeridiana, un ponte. Appare sbilenco, scarno, con gambette essenziali che a malapena sorreggono. Qualcosa mi attira verso di lui, devo accelerare la pedalata per andare incontro a questa secchezza, questa precarietà. Sembra abbandonato, sembra che impronte umane non ve ne siano da secoli. Vedo solo l’impronta della luce, calda, che si accinge a scendere verso il tramonto. Mi sta di fronte, questa desolazione. Sbilenca, parzialmente illuminata.

Faccio un giro di pedale in più, mi avvicino. Adesso anche la luce che fende è più vicina, anzi è l’unica certezza di quest’incontro. Questa luce ha un calore, apro la bocca per inghiottirlo tutto con un unico gesto osceno.

Sembra che qualcosa debba avvenire, mentre ingoio questo sorso bollente.

O sarà la notte ad inghiottire me…

O sarà il corpo ad incepparsi, ad incastrarsi nel meccanismo, a rimanere nell’ingranaggio...

Gli vado incontro. Qualcosa dice che bisogna pure lasciar accadere, evitare di frenare, lasciar fare alla gravità.

Gli vado incontro su questo ponte scarno, che a malapena sorregge.

Non penso che sia così disgustoso. O meglio, penso che nel suo essere disgustoso sarà eccitante. Penso a quale delle mie parti attivare prima. Mi viene istintivo di cacciare un dito, afferrare qualcosa di sicuramente umido, intingere in qualcosa di sicuramente umido. Immergo il dito in quest’umidità. Tiro fuori qualcosa di organico. Ho tutta la bocca piena del sorso che faccio cadere a poco a poco, saliva che scende piano, si ferma attorno al corpo estraneo e lo circonda. Inizia piano, con una lieve lubrificazione in modo che il ponte sbilenco non traballi troppo. A mano a mano che si rianima, tutto prende consistenza e fiducia.

Stendo tutto il mio corpo per bene sul ponte, faccio in modo che il mio orifizio anale combaci per bene con il pavimento freddo e sbilenco. Il contatto eccita. La precarietà eccita.

Guardo in faccia al corpo estraneo che, investito dalla luce pomeridiana ormai virata in tramonto, diventa sempre più pesante e voluttuoso. Diventa sempre più invasivo ed esigente.

Aspetto che in una sola mossa decisa, senza troppe esitazioni senza indugi pensieri preliminari affetti preamboli raggiri, ma con una sola sicura menefreghista pugnalata scenda a picco su di me, invada me. L’impatto mi fa godere. Per la violenza del colpo il ponte sbilenco già traballante va in mille pezzi, insieme ai miei liquidi, alle mie certezze.

Entrare nel corpo estraneo è la calamità del secolo.

Almeno non morirò nella secchezza.

 

 

Acquario

Bari, 10 febbraio 2020

 

Ti ho visto su quella bancarella, chiuso in un cellophane polveroso e spesso, isolato dall’aria, invisibile agli indici umidi di quelli in cerca di un volo.

Non ti ho afferrato e ti ho toccato con la compassione impersonale che si usa alle cose.

Ti ho soffiato la polvere e nascosto come un segreto in un posto dal quale mi occhieggi di presenza ogni giorno.

Giorni di casa e di libri. Aperti toccati afferrati non compresi. 

Giorni chiusi di ampi ritorni. 

Ti ho riaperto oggi copertina dorata a macchia in colata orizzontale sei, 

cara Elenuccia, 

nata acquario – instabile cuore grande, fatichi a lasciare andare via le cose. 

A volte ti riesce, pagine strappate e fogli vuoti tra i nomi che «non sono che poveri nomi, né hanno il sovrannaturale potere di far sì che restino sempre in quella freschezza dei primi anni. Ma pure, quanta poetica dolcezza è racchiusa in loro!...»

Manca la tua foto e ci sono i tuoi occhi poggiati su ogni parola dedicata. Scritture tue non ne riconosco, ma so che hai trascorso le estati dei tuoi giovani anni a Torrepelosa dove Irma-la-brutta ti faceva ridere tanto «Chiudi gli occhi...– Che cosa ci prepara il destino? Mistero!». 

La tua famiglia è, come si dice?, benestante: conservi come una reliquia il «Notamento del corredo» di zia Mariannina che nel 1889 portava in dote Duemiladuecentotre Lire 2203.00 di lenzuola, camicine, sottane e fazzoletti, 

Hai studiato a Roma, forse sei un’insegnante: Carducci ti appassiona, di Leopardi guardi con avida curiosità le foto del palazzo, con Svevo condividi che siamo dei «poveri malati di civiltà» e con Pascoli che «gli errori che ispirano più indulgenza sono - Proprio tutti». 

Andrai al cinema a vedere “La grande imperatrice” di H. Wilcox perché collezioni ritagli degli outfit delle regine Elisabetta e Guglielmina d’Olanda. 

I disegni misteriosi di Micheluzzo sono la cosa che preferisco tra quelle che conservi qui dentro. La mano infantile ha un pensiero persistente: tendere-tirare-strappare le figure finché escano dal foglio e i cavalli si stacchino dalla giostra, il cavaliere infilzi il suo invisibile rivale, il coniglio muoia stecchito su un’onda blu, le porte tirino via la casa e dai balconi

il treno dei desideri nei miei pensieri all’incontrario va...

 

Cara Elenuccia, 

la tua vita è ora ferma alla prima pagina e tutta la svolgerai ancora

 

 

 

Cronache dall’acquario, La densità del tempo -
(o visioni pandemiche)

 Sono nel traffico.

Gomito al finestrino, gas di scarico, sole basso negli occhi. 

Alla radio, musica che non capisco, parole mozzate e voci modificate. Cambio stazione. Radiogiornale. 

La coda avanza un poco. Mi specchio nelle espressioni annoiate degli automobilisti. Abbiamo solo voglia di tornare a casa e di scrollarci la giornata di dosso.

Alzo il volume, parlano del virus cinese. È arrivato anche da noi. La gente muore. Dobbiamo chiudere tutto, scuole, negozi, parrucchieri, banche, parchi, chiese, tutto. Dobbiamo restare a casa.

Sento una vibrazione. Un brontolio dal basso. La mia auto si stacca da terra. Mi sento leggera, lievito all’interno dell’abitacolo. Intorno a me, le altre automobili galleggiano nell’aria.

Ci guardiamo attraverso il parabrezza. Le nostre bocche si spalancano al rallentatore. Pesci in un acquario.

La mia auto punta il muso in alto. Parte. È un razzo. Sale a velocità supersonica. Il tettuccio si apre, vengo espulsa dal sedile. Sono proiettata in alto, così in alto. Il mio corpo cambia, torno adolescente, bambina, neonata. Un casco da cosmonauta mi protegge la testa, un lungo cordone ombelicale mi tiene attaccata a una piccola terra, così distante. Volo nell’universo.

In lontananza vedo un agglomerato di stelle. Lo raggiungo. È una strada illuminata da lampioni. Nuoto in mezzo ad alti edifici. Dai balconi, persone cantano, battono le mani, annaffiano piante.

In strada un corpo di ballo sincronizzato, infermieri, dottori. Sorridono sotto le mascherine. Persone a letto, intubate, seguono il ritmo. Gli spiriti si staccano e volano con me.

Avanzo. Dai balconi piovono cestini colmi di fiori, di buon cibo. La musica diventa un’eco. Le strade sono vuote. Quiete. Sento un rumore di passi, di zoccoli, un cerbiatto mi saltella accanto. Sotto di me corre un cinghiale, vengo immersa in un fuggi fuggi di animali selvaggi, delfini, cigni, scoiattoli e scimmie che ciondolano da un balcone all'altro. Mi sorpassano. Sono di nuovo sola.

Il gracchiare di una radio. La serranda di un negozio si apre, il rumore è assordante. Nella strada davanti a me un grido. Gente che manifesta. Hanno grandi cartelli in mano. Leggo “Rivoglio il mio taglio di capelli!” “Aprite il mio fastfood!” “La libertà o la morte!” Una persona tenta di colpirmi con un cartello che dice “Complotto!” Lo schivo per un pelo. 

Una radio volante mi segue, dicono che il virus sta andando via. Dicono che dobbiamo tornare alla normalità.

Il cordone ombelicale si tende. Annaspo nell’aria. Mi tira all’indietro, sempre più forte, sempre più rapida. Gli animali corrono, volano, saltano all’inverso. La gente dei balconi viene aspirata dentro casa, i lampioni sfrigolano, si spengono. Il cordone tira. Invecchio, la terra si fa più grande. Ho paura, finirò per sbatterci contro. Esplodo. Nero. Luce.

Sono nel traffico. Gomito al finestrino, gas di scarico, sole basso negli occhi e musica che non capisco.

 

 

 

Parabola

“Ma non ho capito, la colpa è dei militari americani o dei cinesi che mangiano i pipistrelli?” “ma no, il virus è scappato da un laboratorio!” “Ma la parabola deve per forza venire curva?” “Y è la freccia su, giusto?” “Ma alla fine a scuola ci torniamo o no?” “Ma no, la min…ra ha d…o ch… si...o t…ti prom…si” “Eh? Non ti sentiamo!” “Prof, mi sente?”

La virtualità della scuola ai tempi del coronavirus non sta solo nelle piattaforme, nei compiti da scaricare, nelle videolezioni, in quei discorsi troncati da una caduta di linea… sta anche, o forse soprattutto, nella virtualità intesa come simulacro del reale, nella surrealtà dei suoi tentativi, nel cubismo di quei volti pixellati. “Didattica virtuale” ha un bel suono, innovativo e dal sapore futuristico. Eppure, in questi pomeriggi di videochiamate, non ho avuto l’impressione di fare vera didattica, né di insegnare alcunché .

Sarà che nella classe sono l'insegnante di sostegno, ma il mio lavoro, in queste settimane, è stato molto simile a quello del cane da pastore, che cammina affianco al gregge con particolare attenzione su chi non segue il passo, andando a cercare chi si è perso, che sia per una china troppo ripida, per noia o per un problema di wi-fi. 

E dopo ci si prova a far capire il fuoco e la direttrice, a confutare le fake news, a spiegare che molti dei loro interrogativi sono anche i tuoi, sperando che tutti rimangano in linea almeno fino alla fine della frase. Perché se la connessione viene a mancarti da sotto i piedi nel momento in cui sei più dentro alla complessità del reale, l’onda virtuale dei luoghi comuni, dei complottismi, della faciloneria può far crollare ogni tentativo di guardare con distacco questo mare nero in cui tutti stiamo a fatica galleggiando, ricacciandoci ancora più giù. E così si surfa in superficie, non ci si addentra davvero in niente, si passa in un attimo dai dati dei tiggì alla Guerra dei Cent’anni, si fingono di non vedere gli sguardi al di sopra dello schermo nelle interrogazioni, non esiste più nessun contesto, nessuna divisione, nessun vero contenuto.

E si continua così, un giorno dopo l’altro, come su una parabola che sembra non curvare mai.

 

 

 

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